Ercolina

Ercolina

Racconto e foto di Adalgisa Giannella

C’era una volta Ercolina…Ma è una fiaba? Non proprio, ma può diventarlo.

La forza era tutta nelle gambotte storte e le braccia a forma di minuscole cupolette toniche e vigorose. Ercolina si caricava cinquanta litri d’acqua alla fonte di Riomonte perchè l’acqua corrente non era potabile in paese. La mummola di terracotta le rimaneva ferma sul capo, grazie agli stracci attorcigliati più volte e messi a mo’ di nido sull’enorme testone, poi percorreva dieci chilometri di strada sgarrupata per raggiungere casa.

Nessuno ad aspettarla. Ci viveva sola da dieci anni in quelle tre stanze al pianterreno generosamente lasciate dal titolare dell’osteria Vindevin che l’aveva trovata neonata accanto all’immondizia, abbandonata come una cosa rotta. Domenico si era chiesto più volte come si fa a lasciare un figlio, ché a lui non era mai arrivato per quanto desiderato, perciò aveva deciso di adottarla quella bimba strana che a detta del dottore, non sarebbe arrivata al metro. Le aveva dato nome Ercolina perché prendendola in braccio, gli dava pugni sul petto come a cercarne il cuore ormai sepolto, da quando Adelina se ne era andata, lasciandolo solo.

Quindici anni e non cresceva Ercolina, 90 centimetri di donnino affezionato e gentile. Domenico l’aveva portata dai migliori specialisti per sentirsi dire che era affetta da nanismo e se la doveva tenere così, corta e chiattulella. A tredici anni le aveva messo una seggiola di legno dietro il bancone del Vindevin e quella ci si arrampicava e se la spostava a secondo di quel che doveva sbrigare, ma all’osteria le volevano tutti bene, tanto era brava e servizievole. Al paese oltre alla chiesa, c’erano quindici case e la vita si raccontava tutta all’osteria, tra un bicchiere di vino e pane e cicoli, ma durò poco la felicità. Domenico se ne andò con una broncopolmonite. Ercolina lo trovò nel bosco, sotto un olmo gigante dove si recava a far legna, con gli occhi spalancati verso il cielo nebbioso di quel giorno disgraziato e un gladiolo selvatico tra le mani che raccoglieva ogni giorno perché Ercolina lo mettesse sul testone, tra i capelli color spago e le facesse quel sorriso riconoscente, buffo di gratitudine.

Lo pianse tutto il paese, ma più lei che nessuno riuscì a consolare, neanche don Alfonzo parlandole del paradiso. Il giorno dopo il funerale, indossò un vestitello di velluto nero che aveva confezionato di notte sotto una luna maledettamente lucente, inzuppandolo di pianto, poi aprì l’osteria. Al Vindevin si offrivano di aiutarla ma non ne voleva sapere, Domenico l’aveva chiamata Ercolina e ce la doveva fare, per rispetto all’uomo che l’aveva amata, nonostante la deformità. Correva alla fonte per rifornirsi di acqua, al bosco per la legna. Lavava, stirava e teneva il Vindevin come un gioiello. Quando chiudeva l’osteria la forza l’abbandonava e indossava la disperazione. Se l’avvolgeva intorno alle carni stretta stretta, nel gelo della solitudine. I ricordi belli sanno far male come aghi conficcati a caso nei posti più dolorosi, ma a lei non rimanevano che quelli trascorsi con papà Domenico. Compleanni, Natali, festività paesane tra risate e chiacchiere con gli affezionati del Vindevin. Tommaso lo sbruffone, Sara la brontolona, Gennaro il poeta, Angelina la pazza, arrivavano puntalmente ogni giorno e come lei non se la sentivano più di ridere e chiacchierare. Lo specchio accanto al lettino le ricordava l’impossibilità di avere un’esistenza normale e una volta chiusa in casa, malediceva quella vita priva di sogni. Il mattino alle cinque era in piedi. Una lavata di viso, una ravviata ai capelli con le mani e si attaccava alla parete per misurarsi. Fissava in silenzio le tacche che si erano fermate al metro dai quindici anni in poi, le tacche segnate da Domenico ogni giorno con la speranza che da Cucciolo si trasformasse in Biancaneve.

Aveva trent’anni e avrebbe smesso di misurarsi. Un metro e stop. Rassegnata, si infilava gli zoccoli e correva ad aprire il Vindevin e tutto ricominciava. La fatica l’allontanava dai brutti pensieri, dall’isolamento, dal terrore di diventare più nana, da tutto quello che mortificava. Il sole nasceva e si spegneva. Ogni giorno uguale. Dopo un inverno lunghissimo iniziò la primavera. Le campagne da gialle e rinsecchite avevano indossato un abito smeraldo sul quale farfalle e margherite si appoggiavano dolcemente, le querce attorno al Vindevin ospitavano nidi ricchi di sterpi e fili, dentro il cinguettio dei nati era un balsamo per le orecchie di ciascuno. Quel giovedì le sembrò diverso. Il vento di aprile spazzolava alacremente ogni residuo di brina, il cielo piombava sui campi con tutto il celeste. Si sentiva ancora più Ercolina con un tempo così bello e un pò di tristezza l’aveva lavata il temporale del giorno prima. Chiuse il Vindevin e si recò con la biancheria sporca in cortile. Là Domenico aveva costruito una vasca bassa in pietra per evitare che ci cascasse dentro. L’acqua scorreva dalla cannella ormai arruginita, facendo un gran rumore. Le sue bracciotte strofinavano i panni con forza sulla tavola di legno massiccio. Le macchie di vino erano insieme a quelle di olio, le più difficili da cancellare dalle tovaglie di cotone, ma sotto la sua pressione tornavano immacolate. Aveva messo una scala accanto ai fili sui quali stenderle e la stava spostando quando sentì qualcuno all’ingresso dell’osteria battere dei gran pugni sulla porta in rovere.

La colpì la voce roca e un accento che non era il loro. Trasalì e corse all’interno del locale. Dai vetri ricoperti da tendine scure vide solo una mano che continuava a battere con forza sul legno gridando:

— C’è nessuno?

Non ne vide il corpo e pensò che lo sconosciuto si fosse accovacciato. La cosa la spaventò a morte. Solo pochi istanti e si fece forza. A breve sarebbe arrivato Eracle, l’idraulico del paese, per liberare un lavandino, in lontananza sentiva il fragore che faceva il vecchio furgoncino. Prese l’attizzatoio accanto al camino, augurandosi che Domenico la proteggesse, e con tutta la voce possibile gridò:

— Chi è là?
— Mi chiamo Andrei, vorrei tanto un panino e qualcosa da bere. Ho viaggiato tutto il giorno, la prego mi apra.

Il cielo si era di nuovo adombrato e un vento più vigoroso faceva danzare le tovaglie appena stese. Le successe una cosa strana. Provò gioia dopo tanto tempo e senza motivo. Prese una margherita da un vasetto appoggiato sul vecchio bancone e se la incastrò tra i capelli. Aveva ancora paura anche se stranamente le piaceva quella voce senza un corpo. Era calda e gioiosa. Qualcosa le diceva che doveva fidarsi, mentre il cuore pizzicava nel petto. Diede un giro alla chiave e spalancò la porta. La prima cosa che notò fu un ciuffo biondo come il grano che cadeva disordinatamente su due occhi color zaffiro, poi si confrontò per la prima volta con una persona alta come lei e non le sembrò vero.

— Toh, anche tu…

Le sfuggì di getto la frase infelice, ma l’uomo scoppiò a ridere e lo fece anche lei. Per la prima volta a distanza di anni si sentì felice, di quella felicità piena con dentro altro che non capiva. Andrei le toccò la margherita tra i capelli e:

— Ti sta proprio bene.

Quel gesto così familiare la sconvolse. Corse al bancone e salì sulla sedia chiedendogli timidamente da dove provenisse.

— Veniamo da molto lontano noi del circo. Da una terra chiamata Moldavia, la conosci?

No, non la conosceva e neanche il circo, ma non le importava. Mentre scaldava del pane con cicoli e riempiva un bicchiere di birra fresca, si chiese cosa stesse succedendo in quel giorno di aprile nato come tutti gli altri, perché le si accapponava la pelle al solo guardare l’ometto che aveva di fronte. Si toccò le guance e ne percepì il calore innaturale. Ne aveva letti di romanzi d’amore e non voleva credere che stesse succedendo anche a lei, innamorarsi improvvisamente di uno sconosciuto tra l’altro nano come lei.

Quando Eracle entrò si ricompose e lo condusse verso il lavandino del bagno attiguo al magazzino del Vindevin. Andrei aveva pagato e sperò si trattenesse ancora un po’. Quando le arrivò il “ciao” baritonale, corse per salutarlo ma l’uomo era già fuori e ci rimase male. Tornò ad essere triste perché quel sentimento continuava a tormentarla e probabilmente lo aveva provato solo lei. I giorni tornarono ad essere tutti uguali. Qualcuno le riferì del circo in paese che divertiva la gente, di un piccolo uomo che cavalcava leoni ed elefanti, e se desiderava parteciparvi. Ercolina rispose di no. Tornò ad essere triste e a misurarsi ogni giorno per guardarlo in faccia quel destino mortificante. Un metro e stop.

Se la prese anche con Domenico pregandolo di non farle più scherzi di quel tipo. Farla innamorare e non proteggerla dai bui emotivi che ne sarebbero derivati. Per lei non ci sarebbero stati baci, abbracci e altre cose belle come aveva letto nei libri accanto al lettuccio di notte, quando si cerca qualcosa che porti via il dolore almeno per un po’. Trascorse una settimana e smise di misurarsi, di pettinarsi e mettere fiori nei capelli. Coprì lo specchio della camera con un telo, raccolse tutti i romanzi d’amore e li chiuse in una scatola di cartone dimenticando l’amore per Andrei e dedicandosi come un mulo solo al Vindevin.

Sara la brontolona le aveva detto che il circo era sparito. Niente più tendoni, né roulotte, musiche gitane, puzzo di animali. Meglio così si disse Ercolina ormai sprofondata in un’inquieta nostalgia. Meglio così. L’estate passò in fretta. Il Vindevin aveva ospitato numerosi turisti che su quelle colline cercavano fresco e buon cibo. Con l’autunno tutto rallentò e cominciarono a ruggire i primi temporali. Dal vecchio baule tirò fuori gli indumenti invernali e qualche coperta. Ercolina si sentiva come un guscio vuoto, le forze stavano venendo meno. Si augurò di andarsene all’improvviso come Domenico da una vita nient’affatto generosa, ma qualcosa le diceva di sperare, di farlo per l’ultima volta. Le forze ritornarono con i tramonti autunnali che si divertivano ad accentuare i rossi e i gialli sopravvenuti in natura.

L’unico fiore che poteva mettere tra i capelli che aveva ripreso a spazzolare, era il ciclamino selvatico che fioriva spavaldo sferzato da acqua e vento. Si cucì un vestito con del pannolence azzurro avanzato dalla copertura delle sedie del Vindevin al quale applicò delle piccole margheritine bianche. Le fecero tutti dei gran complimenti e Gennaro il poeta le lasciò sul bancone un cartoncino. “Vorrei farmi piccolo per incontrare quella grazia che così bene nascondi. Il cielo di dicembre anela la sua stellina dal cuore forte che sconvolgerà di luce la prima neve” . Si commosse Ercolina e quella notte dormì bene. Sognò papà Domenico. Era vestito di bianco e aveva due ali gigantesche. Si avvicinò al suo orecchio e le sussurrò:

— Non preoccuparti di come sia andata, sarai felice anche tu Ercolina. Sappi che sono fiero di te.

Si svegliò di soprassalto, erano le cinque e nel cielo la luna sembrava sorridere. Abbracciò il cuscino e si tirò la coperta fino al mento. Era freddo. Pensò che il ghiaccio attaccato ai vetri aveva a che fare con un dicembre rigido che avrebbe portato molta neve. Non ci vide nulla di bello nel Natale in arrivo, isolata dai pochi amici che aveva.

Si attaccò con passione alle parole di Domenico e ancora una volta volle sperare che non fosse così. Doveva mettere buone cause e rendere il Vindevin accogliente e luminoso. Corse in soffitta e tirò fuori gli scatoloni con gli addobbi natalizi e le luci. Dalla morte di Domenico li aveva lasciati là, abbandonati tra polvere e ragnatele, per non illudersi che qualcosa di felice c’era stato anche nella sua povera, minuscola vita. Tutta la giornata la impiegò a spostare scala e sgabelli in ogni spazio del Vindevin dimenticandosi del tempo, dei rischi che correva arrampicandosi come un ragno qua e là.

Si ferì a un braccio e un livido chiassoso apparve all’altezza del gomito. Poi cadde dall’ultimo gradino della scala di legno e sulla fronte un’altra medaglia di guerra si presentò senza ritegno. Corse a disinfettarsi mentre fuori cominciava a nevicare. Aveva fatto un gran lavoro ma le luci si sarebbero accese, pensò con il giusto timore. Erano passati dieci anni, troppi perché tutto fosse rimasto come allora. La neve cadeva sempre più fitta.

Attraverso le finestre del Vindevin si rinnovava il miracolo del bianco, di un candore che Ercolina percepiva attraverso il corpo sgraziato senza più debolezze, né fraintendimenti. Improvvisamente accese l’interruttore e tutto divenne luce. Il suo castello si illuminò e per la prima volta in vita sua, non fu nana ma principessa perché la vita picchiava sul suo cuore con tutte le forze e la gioia le apparteneva come a ogni essere umano. Quando bussarono alla porta era guarita. Corse ad aprire.

Andrei la guardò con amore. Si strinsero forte e si baciarono.

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