Emil Cioran, La caduta nel tempo, Adelphi
Recensione a cura di Martino Ciano – già pubblicata su Zona di Disagio
È stato un filosofo controcorrente che metteva da parte stile e metodo, ponendo al primo posto la propria esperienza. Emil Cioran è stato depredato da destra e sinistra ma la sua opera è anarchica. Scriveva per se stesso, non per i suoi lettori o per coloro che dovevano giudicarlo. È questo che lo rese libero da condizionamenti.
Nichilismo e assurdo si uniscono nella sua opera, che al centro pone l’uomo. Essere incoerente, in guerra contro Dio, contro il mondo, contro la sua specie. In uno dei suoi libri più significativi La caduta nel tempo, Cioran parla di tutti quei problemi esistenziali che la filosofia moderna ha abbandonato.
Parte dalle origini, dalla cacciata dall’Eden, da quell’atto di ribellione che mise in mostra la natura masochista dell’uomo. In principio l’uomo aveva la possibilità di vivere nell’immobilità del tempo, nell’ignoranza ma ha scelto il dubbio e il divenire.
Proprio così, il frutto dell’Albero della vita per Cioran non è sinonimo di Conoscenza ma di Dubbio, perché l’uomo non ha accesso al sapere in quanto schiavo di una storia cucitagli addosso da una felicità fallace. Non è una visione pessimistica quella di Cioran, ma che si fonda sull’esperienza.
Finché si sta bene, non si esiste. Più esattamente, non si sa di esistere. Scrive Cioran. La malattia, non solo quella fisica, è per lui un mezzo che riconsegna l’uomo alla sua essenza primordiale, formatasi in quella masochistica scelta. Un’essenza che è scissa, plasmata sulle uniche due possibilità di espressione che l’uomo ha: negare e dubitare. Per Cioran la condanna dell’uomo è il desiderio che insinua il dubbio, che porta alla ricerca. Conseguenza di una missione diabolica che l’essere umano ha scelto staccando il frutto che l’ha consegnato al dubbio e al divenire, in poche parole alla storia.
Come può l’uomo liberarsi di tutto questo? Cioran non arriva a nessuna conclusione. Indica solo una possibilità: sperare che la storia finisca e che l’uomo trovi felicità in un’era senza più desideri. Ma questa potrebbe essere anche la sua condanna, perché già in principio visse in quell’epoca di noiosa beatitudine, senza tempo, ma che egli rifiutò. Proprio in virtù di questa scelta, oggi per l’uomo sarebbe una cacciata dal tempo e dalla storia. In poche parole, l’inferno.
E in questo ingranaggio assurdo del vivere senza fine e di un divenire senza certezza alcuna, qual è soluzione? Già Albert Camus si poneva con cinismo questa domanda e iniziava così il suo saggio Il mito di Sisifo.
“Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia”.