Elvira Scorza, La fiducia dei piedi scalzi, Bertoni

Recensione a cura di Martino Ciano – già pubblicata su Gli amanti dei libri

In un totale accoglimento dell’attimo, come se il dopo non fosse più importante, si muovono le parole delle diciannove poesie di questa raccolta.

L’amore di cui ci parla Elvira Scorza non è quello “platonico”, bensì quello che si vive, lo scegliersi per caso per sudarsi addosso le tristezze. È quello che si attraversa a piedi scalzi, anche se il terreno sul quale si cammina non è sicuro. Insomma, l’amore è una scommessa che spesso si perde ma giocare è sempre affascinante e, dopotutto, la vita è un gioco che la serietà rende banale.

Cosa resta dei nostri amori passati? Ricordi, direbbe qualcuno, e le parole della Scorza sono anche dedicate alla memoria di quei momenti che ci accompagneranno per sempre e che nessun nuovo amore spazzerà via, perché ogni ricordo risponde al nostro bisogno di esistere. Amare vuol dire esistere, anche l’attesa è testimonianza del nostro esserci.

Di domani in domani/io m’aspetto che tu non verrai ma contavo/sull’incapacità del fato di aspettare.

È qui che si annulla il tempo, in quanto passato, presente e futuro diventano solo punti cardinali della nostra razionalità. Viviamo perché ci diamo un senso, aspettiamo perché speriamo che i nostri desideri si avverino, ma se ci fermiamo un attimo scopriamo che tutto si ripete, che le nostre emozioni sono simili a quelle dei nostri avi. Ecco perché tutto è solo attimo.

Sei qui. Tu ci sei. E io ci sono/Ci siamo/Ci teniamo per mano/E insieme siamo una cosa semplice.

La “cosa semplice” è proprio questo momento che ha un peso, che graverà sulla memoria anche quando saremo pezzi di carne scossa dal rimorso, rancori presi a calci, odi nascosti.

Di queste parole son fatte le poesie di Elvira Scorza, che sono modellate da uno spirito di teatralità che viene ben descritto da Marzio Badali, autore della prefazione. In fondo, cos’è l’amore se non recitare davanti a una nutrita platea di emozioni che sarà pronta ad applaudirci o a fischiarci, come se fossimo, nella gioia o nel dolore, protagonisti assoluti?

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