E poi si parte. Un rito calabrese

E poi si parte. Un rito calabrese

Articolo di Martino Ciano. E poi si parte dalla Calabria. Se ne vanno amici e parenti. Il rito annuale in poche battute

Nei loro visi ci sono i sorrisi amari di un lungo disincanto, ché il benessere è altrove e l’eco del suo richiamo giunge da terre lontane. La stazione ferroviaria è affollata, le voci si confondo, gli abbracci si susseguono, le lacrime scivolano lungo le guance.

Forse, da un po’ di tempo gli addii sono meno dolorosi, ormai ci sono le videochiamate e oltre al tono della voce puoi anche gustare le smorfie del viso. Quante valigie ognuno porta con sé, sono piene di vestiti e anche di salami e formaggi, ché nessuno se ne va senza un pezzo di casa, senza i sapori che rinnoveranno la nostalgia.

Maledetta terra che lascia fuggire i propri figli. Un popolo debole e arrendevole produce figli deboli, così avevo letto su un libro e questa frase rimbomba mentre il primo treno arriva, mentre saluto l’amico che con passo deciso sale sul convoglio con i suoi bagagli, sgomitando tra gli altri avventori. Andiamo, partiamo, saremo calabresi ovunque, chi resta e chi va, pochi restano e troppi vanno via. Ogni anno è così, neanche questa volta è cambiato qualcosa. Il rito si ripete, il rito è noioso; anche parlarne lo ha reso un piagnisteo.

Nessuno torna, nessuno ci pensa al ritorno. Forse quando sarò in pensione!

Si fugge dalla precarietà, anche se altrove la precarietà è onnipresente, ma questa precarietà calabrese risulta essere insopportabile. Meglio la precarietà romana, milanese, torinese, vicentina. Sì, tutte le precarietà sono migliori di quella calabrese. La precarietà è opprimente. Lei è un cappio al collo, oggi spinge a impiccarti, domani ti farà impiccare, dopodomani sarai un altro dei tanti che si è impiccato, dopodiché nessuno si ricorderà di te. Ecco, tutti coloro che stanno partendo, con questo treno e con i prossimi, sono degli impiccati. Se ne vanno senza fiato. Trattengono tutto nello stomaco per vomitarlo in un altro posto.

… e chi resta non è un eroe. Troppa filosofia, troppe parole sulla resilienza… chi resta è solo con se stesso, chiuso nel suo pensiero di Calabria. La mia regione dà a tutti la possibilità di essere utili idioti, eroi per un giorno, codardi per un giorno, omertosi per un giorno, coraggiosi per un giorno, sudditi per un giorno, padroni per un giorno. La mia regione è anarchica, lascia che tutti conoscano gli inganni subiti e fa sì che quegli inganni li riversino su altri…

Ora mi fermo a osservare: la madre saluta il figlio, il padre abbraccia la moglie e il figlio, il padre non piange, la madre piange, il figlio sussurra… donna non è ancora giunta la mia ora… e il padre si allontana, ché l’uomo calabrese non piange e di notte bacia i figli, e la madre dice mi raccomando, e il figlio sale sul treno sorridendo.

Ci sono partenze che contengono già il senso del ritorno, il sospiro di sollievo del pericolo scampato, del mai più!

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