E io pensavo ad un giorno lontano…
Recensione e foto di Antonio Maria Porretti. In copertina “Nessuno torna indietro” di Alba De Céspedes, Mondadori
C’è un’Italia di già irrobustito Ventennio come sfondo a “Nessuno torna indietro”, seppure in assenza di riferimenti diretti alle politiche squadristiche di rafforzo al regime, o al glamour autarchico di derivazione imperiale con cui soleva dilettarsi. Nessuna avvisaglia – per dire- di Figlie della Lupa o Giovani Italiane, in nessuna delle storie che coinvolgono le otto co-protagoniste del romanzo. Tutte approdate per motivi e aspirazioni quanto mai differenti fra le mura del collegio Grimaldi di Roma, pensionato per ragazze mediamente di buona famiglia.
Un’arca sulla terra ferma, governata dalla austerità e dal rigore di suore/sentinelle, da cui osservare e meditare sulle rotte verso cui indirizzare le loro vite; durante un tempo di maturazione che dall’autunno del 1934 si protrarrà fino all’estate del 1936. Maturazioni con un unico collante alla base, in grado di stabilire e determinare una sorta di sorellanza sia pure di comodo o di breve durata: quel ritrovarsi perennemente in bilico e conflitto fra il rispetto di una mitologia domestica, o il suo rifiuto. La narrazione che ne scaturisce è tutta un resoconto del Turning Point che attende ognuna di esse. C’è chi alla fine accantonerà i propri sogni, chi avrà il coraggio e la determinazione di perseguirli, chi sceglierà la via della ribellione sbarazzandosi e rinnegando il proprio passato, chi invece si lascerà andare al proprio destino, nel tentativo di ritardare a tempo indeterminato l’ora della scelta, carpendo l’illusione di un nuovo giorno come se fosse l’ultimo.
Nessuna di loro potrà più tornare indietro, se non con pensieri e ricordi di giorni lontani, nel rammarico di una domanda introdotta da un lunghissimo se.
Ma questo Sliding Doors che ogni tanto interviene, non va certo a detrimento della tematica femminista a perno di tutta l’opera di Alba De Céspedes. Paladina fino all’ultimo dei suoi giorni, di ogni causa a favore del riconoscimento dei diritti delle donne. Una Irrégulière, se si vuole, per i canoni della cultura italiana dell’epoca, e non solo in virtù del suo cosmopolitismo di nascita e formazione. Scrittrice di rara acutezza e profondità intellettuale, certo, ma anche partigiana durante la Resistenza, giornalista, sceneggiatrice per la Rai, e soprattutto donna di azione e sempre in azione su qualunque fronte occorresse dar voce alle componenti più penalizzate da una società grondante di patriarcato in ogni ambito e livello.
Questo suo primo romanzo pubblicato nel 1938 sotto l’egida di casa Mondadori, già dalla sua prima apparizione balzò in cima alle vendite proprio perché – e come mai in modo così corale – metteva in nero su bianco le rivendicazioni di un pubblico femminile stanco di essere individuato, percepito e mostrato solo nelle vesti di madonnina laica preposta alla tutela e continuità della famiglia. Come pure infiocchettata con preziosismi e leziosità da telefoni bianchi.
Il tutto ovviamente senza incorrere nella damnatio memoriae della censura. Evitata solo grazie alle pressioni che il suo editore poté esercitare nei confronti della preposta commissione giudicatrice. Un successo che oltrepassò l’Atlantico, per sbarcare in quegli Stati Uniti dove anni e anni dopo, Mary McCarthy avrebbe dato alle stampe “Il Gruppo”, altro affresco del mondo femminile di portata e valenza internazionali.
L’autrice stessa dichiarerà quale peso e importanza questo romanzo italiano avesse assunto nel progettare il suo impianto narrativo. In effetti, accostando i due titoli, stupisce quale affinità elettiva intercorra tra loro sul piano del tempo storico e dell’azione, al netto della inevitabile diversità di luogo da dove l’intreccio prende il suo avvio: Vassar vs Roma.
E ci si sbaglierebbe e di molto, IMHO, nel liquidare frettolosamente questa quasi opera prima di De Céspedes – preceduta solo dalla raccolta di racconti “L’Anima degli altri” (1935) – come un album di figurine vintage, o considerarla con la stessa benevola accondiscendenza accordata al ripasso di vecchie foto di famiglia, riandando con il pensiero a giorni lontani ( giusto per rimanere in tema). Innegabile che tanto sia cambiato e evoluto da allora; meno inconfutabile che ancora tanta strada resti da percorrere per la legittimazione di una parità più di sostanza, ché di proclami e propagande pro domo di chicchessia.
Certi fenomeni di arretramento culturale evidenziati dalla cronaca, certi ritorni ad una immagine decorativa e di puro contorno della donna, di cui le dirette interessate si rendono anche complici, fautrici e responsabili – per onestà intellettuale sento il dovere di segnalarlo- confermano esattamente il contrario. È solo una polvere di genere linguistico, e che ogni tanto riaffiora qua e là tra le pagine, a denunciare l’età di questo libro. Ma non mi sembra che tale patina di desueto impedisca ancora oggi di leggere Pirandello, come altri autori del nostro Novecento letterario. E sarebbe anche ora di riaffiancarlo ai nomi delle più grandi autrici italiane, quello di Alba De Céspedes, per troppo tempo relegato in un lungo e ingiustificabile oblio. La ripubblicazione di tutti i suoi lavori messa in cantiere da Mondadori – forse – potrebbe avvantaggiarne la riscoperta. Me lo auguro.