Douglas Sirk o l’uomo che visse almeno tre volte

Douglas Sirk o l’uomo che visse almeno tre volte

Recensione di Antonio Maria Porretti

Non potrei mai dimenticare il mio primo incontro con il cinema di Douglas Sirk, avvenuto in un lontanissimo natale della mia infanzia. Avrò avuto non più di otto anni quando, al termine del classico pranzo a casa delle due prozie dove era solito riunirsi il ramo paterno della famiglia in occasione di ogni mangiatoia festiva stigmatizzata dal calendario, sgusciai dentro la saletta con il televisore in bianco e nero (ancora non si era verificato l’avvento del colore) e nel tentativo di occupare al meglio il mio tempo, mi ritrovai a guardare un film intitolato Lo specchio della vita.

Fu una folgorazione. All’epoca non avevo certo i mezzi per coglierne i significati più profondi, né quelle raffinatezze che caratterizzano lo stile di Sirk, lasciando che fosse solo la trama ad avvincermi sino al comparire dei titoli di coda. Nondimeno, non esiterei ad annoverarlo fra quei film che più hanno contribuito allo sbocciare e alla crescita della mia passione cinefila.

Pertanto, alla luce di questo mio ricordo – funzionale solo in veste di possibile introduzione – , come avrei potuto sottrarmi alla lettura di questo testo? Questo è la trascrizione della lunga e appassionante intervista che Jon Halliday fece a Douglas Sirk durante gli incontri che ebbero nel 1970. Ora per la prima volta proposta nella sua forma integrale e in Italiano, grazie alla presente pubblicazione per i tipi de Il Saggiatore. Volume arricchito e reso ancor più appetibile da uno scritto di Rainer Werner Fassbinder (grande ammiratore del cinema di Sirk fra l’altro) a cui si aggiungono l’introduzione di Andrea Inzerillo (curatore di questa edizione) forse un po’ troppo anticipatrice dei contenuti trattati in seguito, e la postfazione di Goffredo Fofi.

Credo sia stata una scelta molto felice da parte dell’editore di ricorrere al titolo del film più celebre di Douglas Sirk – e che lui non amava granché – in sostituzione dell’originale “Sirk on Sirk”. A mio avviso fa più presa su un pubblico non ristretto all’ambito di studiosi e addetti ai lavori ma anche – come nel mio caso – di semplici appassionati. Dopo tutto si tratta di un classico della letteratura cinematografica che sgombra il campo dai vari pregiudizi, di cui in passato la filmografia di questo Maestro è stata vittima. I suoi melodrammi – genere a cui è legata la sua fama e di cui riformulò il paradigma – non fanno che traghettare e svolgere sul grande schermo il significato etimologico stesso della parola: azione drammatica che si accompagna alla musica.

Occorre ricordare che come regista Sirk nacque in teatro; teatro che non dimenticò mai, neppure quando fu costretto ad abbandonarlo per il rifiuto di compiacere la politica culturale imposta dalla propaganda nazista. Nei suoi mélo guarderà sempre innanzitutto alla tragedia greca. A Euripide soprattutto, di cui mutuerà lo sguardo ironico del deus ex machina nelle sue happy end: finali niente più che di puro servizio, sapendo che nella realtà le cose vanno in ben altro modo.

Denso e coinvolgente, questo libro non lo è solo nelle parti di approfondimento del lavoro registico svolto da Sirk, ma soprattutto in quelle in cui racconta il suo privato, osservandolo come riflesso in uno specchio, immettendovi quel taglio lucido, rigoroso e autoironico con cui si poneva dietro la cinepresa. Con una compostezza ed eleganza prive di sfocature, anche nel rievocare gli avvenimenti più drammatici: la fuga da una Germania tenuta in scacco da un regime che ne avrebbe decretato la totale disfatta; i vagabondaggi in giro per l’Europa all’insegna della più logorante precarietà economica; la fuga verso l’America e l’approdo a Hollywood. Nuove opportunità certo, ma anche di prosciugamento e consunzione dei propri ideali artisici, nello scontro con una industria cinematografica dominata dall’ossessione – a suo modo magnifica – del profitto, nella quale faticò per reinventarsi e trovare un suo spazio.

E al di sopra di tutto, la tragedia vissuta con la morte del suo unico figlio – per quanto mai avuto accanto – scomparso sul fronte russo e mai più ritrovato. Ogni sfaccettatura, ogni riflesso del suo specchio interiore diventano racconto di una vita che nell’imitazione cinematografica cercava un mezzo di comprensione. Forse è in virtù di questo esercizio continuamente imposto a sé stesso, se i suoi mélo seppero rappresentare al meglio le contraddittorietà, ipocrisie e frustrazioni di una borghesia americana sempre in delirio fra sogno e fallimento. Sempre più disperata e dispersa “come le foglie al vento”.

Prima di concludere vorrei aggiungere soltanto che per chi può avvalersi di solide reminiscenze cinematografiche, questo libro permette anche di rivedere intere sequenze e spezzoni del cinema di Sirk. Cosa pretendere di meglio?

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