Dopo aver guardato un telegiornale

Articolo e foto di Martino Ciano. L’articolo è già stato pubblicato da Zona di Disagio
Lampi atomici sul cielo della disperazione, ché già eravamo nell’agonia con una pistola in mano rivolta contro la tempia destra del nostro onore. Non ci mancava nulla per considerarci all’ultimo stadio della malattia, per essere pronti a chiedere il colpo di grazia; invece, abbiamo voluto esagerare ancora di più, osare affinché ci togliessimo anche l’ultimo dubbio sulla nostra incapacità di vivere in armonia con la Terra. Abbiamo scoperto che non solo di noi si può fare a meno, ma che per estinguerci distruggeremo tutto con pochi colpi.
Anni di democrazia, di ciabattini diventati professori, di professori diventanti scimpanzé, di incapaci di oltrepassare il già detto e il già scritto, ma sempre felici di ricalcare teorie utili al pensiero debole. Non è polemica, ma constatazione, sebbene i fatti siano questione di interpretazione.
Sono sempre maturi i tempi in cui ci rendiamo conto di aver fallito. Non c’è momento che più ci avvicini a Dio di quando abbiamo il coraggio di dire A nulla è servito ciò che ho fatto finora. Quasi avvertiamo il suo respiro divino, quasi comprendiamo la sua indifferenza verso ciò che ha creato. Le sue lacrime diventano nostre e, nel nostro pianto, avvertiamo anche noi l’urgenza di mandare tra la gente un Figlio che espii le colpe di tutti, comprese le sue; un unigenito che si prenda sulle spalle le responsabilità di ognuno, comprese quelle dell’emissario.
C’è bisogno di fallire per ritrovarsi umani, per disprezzare la propria umanità, per accettare la caducità. Di questo ottimismo ebete e surreale bisogna fare piazza pulita, aspirare all’eutanasia della gloria. Rimbalza di piazza in piazza, di strada in strada, di casa in casa il puzzo del glorioso compromesso con il tempo. Risuona questo ottimismo nei cuori di chi ha fallito e di chi vince e vincerà. È una malattia questo sorriso leggero che si incide sulle labbra, che ammorbidisce il viso, che fa sgranare gli occhi, che falsifica ogni nostra tendenza all’apatia. Lo vedo questo darsi in pasto al tempo, all’avvenire, al futuro che trasforma le illusioni in possibilità narcotizzanti, alla favola del miglior giorno che verrà.
Vedo anche coloro che traditi dal tempo e continuamente illusi, si disilludono giusto per un attimo, ché trovato subito un altro desiderio sul quale spalare speranze ripetono il copione e con gioia vanno incontro a un’altra delusione. Seppellito il desiderio, camuffandolo sotto strati di speranza, essi adorano quest’ultima e dimenticano cosa c’è sotto; fin quando l’una assorbe l’altro, fin quando l’una non distingue l’altro, fin quando l’una non divora l’altro, e tutto si compie. Scoprono così di aver adorato la speranza, ossia loro stessi, ché sempre la carne e le ossa che possediamo fin dalla nascita restano la nostra ossessione.
Se potessimo, nulla lasceremmo all’altro, neanche un fiotto d’aria da far passare nei polmoni. Pure per respirare dovrebbe pregarci il prossimo. E allora mi rivolgo a coloro i quali hanno fatto del pessimismo un canto, ossia l’unica intonazione vocale degna d’essere sparsa per i cieli e per la terra, ché la forza sta nel dire Ovunque andremo fallirà il nostro sogno. E in questo motto riconoscersi soldati attivi dell’unica causa per cui combattere, ossia strappare alla vita la sua potenza illusiva.