Festina Lente. Breve divagazione sulla “circolarità”
Articolo e foto di Lucia Bonacci
Le bassezze vengono dal cielo. E piove. E piove, sì e la prendiamo tutta in faccia quella pioggia che cade, a volte lenta, altre più rumorosa. Eppure non malediciamo mai la volta celeste, perché ci aggrappiamo, come funamboli decisamente precari, alle sue nuvole e alla libertà che ci trasmette, al suo sole e alla magnificenza di Sorella Luna.
Facciamo così con tutto e lasciamo andare persone, ricordi, treni non presi, porte scorrevoli. Non ci fermiamo e, come folli furibondi, ci smarriamo. In cosa poi? E per quale motivazione? Perché tendere la testa solo verso il cielo, cosa ci spaventa? Se provassimo a ribaltare la prospettiva, sfidando le leggi fisiche, magari potremmo imbatterci nell’altitudine della terra, del suo aroma, del profumo del verde primaverile.
Mi piacerebbe essere la lumaca del caro Sepulveda, non solo per ammirare con lentezza ciò che mi circonda e riassaporare pure la bellezza di un tronco arrappato, ma per lasciare una scia.
No, non la scia degli esseri immortali, che è anticamera di vanagloria. Ma quella sensazione di contare, essere importanti per le persone alle quali pensiamo di aver donato qualcosa. Perché la terra è dono ed è da lì che tutto nasce e tutto torna. E quando si è stanchi di parole e della lotta, quando non si trovano le risposte, quando la delusione è cocente, quando alcuni panni ci vanno stretti, quando il cuore è chiuso e la mente altrove, poggiamo delicatamente i piedi nella nera terra e lasciamo andare. Siamo di un altro mondo, non siamo retorica né reputazione giocata, né parolai.
In lontananza, un suono di tamburi, il cielo rimbomba. Pioverà di nuovo. Ma che importa? Fermi, fermi ancora lì, con indulgenza. E perdono verso noi stessi, così sporchi, così logori, ma puri, intimi, vivi.