Dietro una porta ho atteso il tuo respiro. Giuseppe Gervasi e la condivisione del dolore
Articolo di Roberto Chiarella. Foto in copertina di Domy Bertucci
Il libro di Giuseppe Gervasi: “Dietro una porta ho atteso il tuo respiro” è un dono perché ci invita a riflettere sulla necessità della condivisione del dolore e sull’urgenza della solidarietà autenticamente umana; un testo che cattura l’attenzione del lettore, grazie ad una scrittura avvolgente. Si tratta di un racconto ispirato dal diario della moglie Sabrina, nel quale annotava i momenti di sconforto, ma anche di coraggio legati alla sua malattia( un cancro al seno, che l’ha costretta ad un viaggio della speranza a Roma per le necessarie cure).
L’autore ha saputo trovare le parole giuste per dare forma ad un racconto intenso, di forte impatto emozionale, nel quale ha rappresentato con squisita sensibilità un universo di emozioni: la paura, l’angoscia, che assediano l’animo umano quando fa irruzione nella nostra vita il dolore. Ma il libro è un canto alla vita e alla potenza salvifica dell’amore, in cui ogni pagina ti fa stringere il cuore. Giuseppe, alternando due forme la prosa e la poesia, una prosa poetica, o meglio una prosa intarsiata da splendidi momenti lirici, ci restituisce i momenti più drammatici ed intensi e lo fa utilizzando due piani temporali: quello coevo alla scrittura (siamo nel periodo della pandemia 2020 e quello in cui si svolge la vicenda della moglie Sabrina 2016).
Sul tema della cura possiamo discutere da un punto di vista sanitario, medico-biologico, dei ritardi e dei limiti della nostra sanità, delle politiche sanitarie e delle criticità di un eccessivo regionalismo o di un distorto federalismo che possono concorrere insieme ad altri fattori endemici alla qualità del nostro servizio sanitario, ma preferisco condividere con l’autore la vicenda umana, i sentimenti che attraversano una persona quando la sua vita è messa a nudo di fronte ad una realtà cosi sconvolgente, facendone deviare o arrestare il suo percorso esistenziale, rischiando di franare pericolosamente, di scivolare in una paralisi emotiva, psichica, sociale. La paura, che, scrive l’autore- “frantuma il pensiero arrogante di essere invincibili, immuni, che la morte sia un problema dell’altro”. E nel tentativo di seguire le traiettorie umane dell’io narrante, il suo terremoto emotivo, inizierei dal titolo: “dietro una porta ho atteso il tuo respiro”.
Nelle battute finali, in un momento di ritrovata intimità quando si fa strada la speranza della guarigione, Giuseppe scrive in modo splendido: “capimmo in quei pochi attimi che l’esistenza era fatta di un respiro e di un abbraccio di due corpi in una notte madre di una nuova vita. Fu in quell’istante che il senso di colpa partì per un lungo viaggio e non fece più ritorno”. Il respiro, dunque. che deriva da pneuma, soffio vitale, è la forza che pervade tutte le cose; respirare il respiro dell’altro significa raggiungerlo nella dimensione più intima; il respiro è il battito di un’armonia ritrovata, è il ritorno ad una vita che ricomincia. E poi la porta, altra potente immagine, che mi ha subito richiamato un passaggio ermetico del Vangelo di Luca,: “per accedere alla via che conduce alla salvezza è necessario impegnarsi in un agòn, il cui esito non è mai scontato”. La porta è un limen, un confine tra vita e morte, tra luce e buio, tra paura e speranza, e attraversarla comporta una decisione che richiede coraggio.
Certo all’inizio il rischio è quello dello smarrimento, di rimanere intrappolati nella paura, ma poi bisogna adottare una postura decisa, il coraggio appunto come l’unica strada percorribile per diventare adulti, per contrastare la prepotenza immane del destino e la paura che si agita dentro di noi. Chi non attraversa quella porta, chi non apre quella porta, scappa, non si prende cura dell’altro. In definitiva amare è accogliere l’altro toccato dalle asprezze ostili della vita, fare entrare l’altro dentro di te e questo comporta coraggio, parola latina che viene da cor ed habeo, che rivela la giusta forza e serenità per affrontare i rischi. E quanto coraggio dimostra la moglie, quanta concretezza nel combattere il mostro; coraggio tipico delle donne, figlie del dolore di Ecuba. Anche quando intorno a te è diffuso il virus altrettanto letale dell’indifferenza che rende ancora più fragile la tua condizione, che seppellisce la dimensione umana della persona. E Giuseppe restituisce questa situazione impregnata di amarezza con uno splendido passaggio, in cui scrive: “le case, quando non sono abitate dal dolore, hanno un indirizzo che tutti conoscono”. Allora questa storia aiuta nel costruire un’educazione emotiva, in un momento in cui lo spirito del nostro tempo sembra caratterizzato dall’insofferenza, dominato dall’individualismo, da un fragile narcisismo, da una chiusura (torna il tema della porta) che in molti hanno definito sovranismo psichico, l’illusione di essere autosufficienti, di non aprirci all’altro.
Ecco, rispetto a questi mali che corrodono le basi dell’umana convivenza, la lezione di questo libro rilancia il tema della solidarietà, della “social catena” di leopardiana memoria, se vogliamo sopravvivere, perché- come rileva Giuseppe: “mentre la vita crea disuguaglianze ed incomprensioni, la sofferenza le attenua”. In questo senso è importante il richiamo, fatto nel libro, dell’immagine potente del Papa nella Pasqua del 2020 quando da solo attraversava il sagrato del Vaticano, segnato dalla stanchezza e dalla sofferenza, per sottolineare lo smarrimento, la solitudine, la notte che avvolge la città e la vita in quei momenti drammatici. In quell’immagine Giuseppe capisce il valore del silenzio, vive l’angoscia dell’attesa, in un ospedale in cui vede corpi “ alla ricerca di un po’ di pace e di sollievo. Sembrava che tutti cercassero qualcosa. Anime vaganti in un inferno di sofferenza”; quanti silenzi in quei momenti, silenzi che dobbiamo attraversare, che aprono un varco per andare incontro alla verità, che ci consentono di raggiungere l’altro nella sua sofferenza. Il silenzio è l’attesa in cui si incrociano amore e colpa, speranza e paura.
E in quei frangenti, lo scrittore capisce che deve fermarsi, che il dolore esige la presenza per prendersi cura dell’altro, per rispondere alla sofferenza della moglie, assediata dalla “ violenza di un mostro, che ha strappato il suo intimo seno, senza timore o alcuna comprensione”. Un mostro che fruga nella carne, deforma il corpo; e poi l’angoscia e l’ulteriore violenza della chemioterapia e il timore che la malattia potesse rubare, cambiare l’identità della donna della tua vita, e consegnartene un’altra. Anche in questo caso la testimonianza di Giuseppe è importante, soprattutto in una società come la nostra che tende a rimuovere il dolore, una società definita algofobica, terrorizzata dal dolore, che prova quasi una strana vergogna verso di esso.
Ma il dolore esiste, non possiamo far finta di niente, irrompe nelle nostre vite senza preavviso; il dolore è una verità che chiede cura e raccontarlo è importante perché intorno ad esso si possono costruire legami solidi, veri. Il filosofo coreano Byung-chul Han sostiene che il dolore è “l’ostetrica del nuovo”, fa rinascere, laddove, invece, rimuovere, occultare l’esperienza del dolore ci consegna all’indifferenza emotiva. Giuseppe fa suo il monito di Giovanni Paolo II inciso all’ospedale Gemelli di Roma, “non abbiate paura” e prende consapevolezza che l’amore è l’unica cura, l’unica risposta e capirà che l’amore consente alla vita di rinascere. E solo allora-ci ricorda Giuseppe – conosciamo l’unica gioia al mondo che è quella di cominciare. “E’ bello vivere, perché vivere è cominciare, sempre a ogni istante”. E si accorge che la fragilità è una dimensione costitutiva della nostra esistenza, non è una vergogna, un limite insuperabile e che l’amore può trasformarsi in un momento di incontro autentico con l’altro, perché nelle fragilità possiamo ritrovarci e coesistere; altrimenti le fragilità rischiano di scivolare nel limbo dell’angoscia o, peggio ancora, alimentare chiusura ed aggressività, confinarci nel nostro io ipertrofico. Un amore cercato nei momenti di fragilità, di deserto emotivo, in una “ signora mi regalò un sorriso che ebbe l’effetto di un buon caffè” o nel conforto di una carezza e nella stretta di mano di una bambina un po’ smarrita, con un fratellino segnato dalla assurda sofferenza che piega l’innocenza infantile, o nel personale medico ed ospedaliero che con garbo e sensibilità calibrava e dava “il giusto peso e significato alle frasi per non ferire e non far sprofondare nella disperazione chi stava salendo i gradini della sofferenza”.
E ancora nell’accoglienza gratuità, silenziosa e solidale dell’amico Franco e della moglie, perché il bene non va urlato o proclamato, ma testimoniato concretamente e semplicemente, è un esserci quando bisogna accogliere il bisogno dell’altro. La dimensione oblativa dell’amore, donare all’altro ciò di cui ha bisogno, portare all’altro il conforto, la solidarietà, la nostra presenza perché la vita non possa mai essere assorbita dall’ombra della disillusione e del cinismo, per non farla sprofondare nella disperazione. Baudelaire ci ricorda che “l’amore è il bisogno di uscire da se stessi, l’estasi che tutti cerchiamo per redimerci dalla nostra fragilità”. Un amore che ti fa guadagnare un’altra consapevolezza, più ricca, più umana di fronte agli umili, ai fragili, ai poveri, agli infelici, perché “loro sono il mondo. Loro sono i nostri peccati. Loro sono quello che noi potremmo essere. Ma quando la finiremo di urlarci addosso?”.
In conclusione per tutte queste ragioni è giusto far conoscere e diffondere questo bel libro in un momento come il nostro in cui a volte mi accorgo che bisogna ricostruire una grammatica dell’emotività, un alfabeto delle emozioni. Giuseppe ha scritto una storia vera, con la sofferenza delle parole intinte nel cuore, squarciando ogni falsa ipocrisia, perché uno scrittore non può tacere o edulcorare la realtà, sarebbe uno scrittore incompiuto e lui ha saputo dare espressione e volto al dolore che può nascere dalla malinconia della perdita e ha voluto raccontare l’amore come forza salvifica. Non dobbiamo né rimuovere né dimenticare, altrimenti, come forse sta già succedendo per la pandemia- per dirla con lo scrittore-: “non capiremo nulla, il pianto provvisorio verrà asciugato dalla poca memoria e si tornerà a correre verso l’inutilità”.