Di sangue e di amore. Una pulsione
Racconto di Daniela Grandinetti
Angela aveva una cura maniacale delle sue mani. Dalle mani si giudicano le persone, pensava. Furono proprio le mani l’inizio di tutto.
Le mani di Claudio erano bianche, con le dita lunghe, affusolate, erano mani che non avevano mai lavorato: figlio di medici, studente in medicina, era cresciuto in una grande villa d’epoca. Angela invece era nata a cresciuta al villaggio rosso, chiamato così per via del colore delle case: una serie di palazzine rosso mattone intorno a un cortile squallido dove nel mezzo stavano tre alberi spogli e malati e quattro panchine arrugginite. Vivere lì equivaleva a un marchio.
D’estate lo scirocco ci portava una sabbia fine che a volte ricopriva i terrazzi. Angela aveva sempre detestato quel vento, come detestava tutto in quel luogo: l’odore di bollito e di umidità nelle scale che appena entravi ti chiudeva lo stomaco, i panni stesi ovunque, il vociare delle donne e dei bambini. Aveva sempre frequentato poco il cortile, non giocava con gli altri, li guardava dalla finestra e le sembravano bestiole in gabbia. Trascorreva la maggior parte del suo tempo davanti al televisore. Perfino la madre si lamentava, diceva di avere una figlia con la puzza sotto il naso. Angela però non se ne curava, stringeva i pugni e continuava a pensare che lei da lì sarebbe andata via. Sprofondata nella poltrona con le gambe penzoloni davanti alla tv, stava alla larga dal mondo, aveva grandi progetti.
Fuggire dalle case rosse e dallo scirocco.
L’occasione arrivò, e si chiamava Claudio, che si innamorò di quella ragazza acerba e testarda, diversa dalle donne che c’erano state nella sua vita. Angela era giovane, ma forte e definita. Usava le mani per accarezzare e graffiare. Graffi che avevano la passione e il calore appiccicoso dello scirocco che arrivava dal mare.
Angela non avrebbe mai pensato di rovinarsele. Le mani. Le sue. Le piaceva affondare le dita nel vasetto di crema per poi massaggiarle sul dorso, sui polpastrelli, lungo le dita, fino ai polsi. Era una sorta di rito benefico: il profumo, la morbidezza, il constatare che erano belle le dava sicurezza. Lei non era come le donne che vivevano alle case rosse. Non aveva mai considerato che un luogo dove soffia lo scirocco può confonderti fino a rovinarti le mani. Non le sue.
Quando alle otto aveva suonato al campanello della villetta isolata era buio, intorno non c’era nessuno. Aveva lasciato la macchina sulla strada e aveva proseguito a piedi. Il cuore le bruciava nel petto. Non riusciva a dominare quel pensiero ossessivo: incontrarla. Da quando l’aveva scoperto, qualcosa nella sua testa si era spostato. Lei avrebbe finito l’università, avrebbe sposato Claudio, invece era comparsa quella donna. La rivale. Aveva sparpagliato tutte le tessere del mosaico. Claudio l’aveva lasciata, poi l’aveva accusata di essere gelosa, paranoica, isterica; l’aveva scacciata come una cagna malata.
“Puttana”: era stata la parola pronunciata da sua madre appena aveva saputo che c’era un’altra nella vita del dottore. Era stata quella parola ad azionare un meccanismo nel cervello di Angela che l’aveva riportata là dov’era nata, alle case rosse.
“Puttana. Non si prendono gli uomini delle altre donne. Bisogna fargliela pagare a sta’ puttana”.
Angela ascoltava la madre e nonostante avesse impiegato la sua esistenza a prendere le distanze da quel mondo, quelle parole le piacevano. Puttana. Cominciò a ripetere. Puttana.
Il pensiero di un’altra donna che le aveva portato via Claudio iniziò a tormentarla come un verme che si mangia tutto. La madre le parlava con l’espressione cattiva e Angela ne studiava il movimento delle labbra, guardava le mascelle dure e sentiva che doveva imparare. Doveva imparare a dire puttana come lo diceva sua madre. Non c’era stato giorno, in quelle lunghe settimane, in cui non avesse risentito quella parola nella testa.
Quando quella sera alle otto aveva suonato al campanello della villetta, voleva solo vedere in faccia la donna che si era presa il suo uomo e dirle puttana come lo diceva sua madre. Invece.
La donna che aprì la porta era bella, alta, imponente. Angela spinse la porta e la donna mentre sentiva l’eco delle parole: “Sei una puttana, lo sai? Hai distrutto la mia vita, è colpa tua, puttana. Tua”. La voce adesso era la sua. “Puttana” continuava a ripetere. Sì. Le veniva bene, proprio come sua madre. Sentì perfino la mascella indurirsi.
In quell’attimo Angela comprese che era l’odore del sangue che l’aveva inseguita dov’era cresciuta. Era da quello che s’era sempre tenuta lontana. La crema, i profumi, servivano per coprire gli odori veri che aveva avuto intorno fin da bambina. Lei sentiva i fratelli tornare in moto e sapeva bene che da qualche parte era successo qualcosa. Una bomba, un morto, due morti ammazzati o nessuno. Magari solo una vetrina sfondata, o una macchina saltata per aria come avvertimento. Lei non aveva voluto vedere ma sapeva. Quando suo padre in cucina beveva vino e parlava sommessamente con altri uomini. La testa continuava a girare. L’odore del sangue. Afferrò una bottiglia sul tavolo e la ruppe contro lo spigolo. L’altra, la rivale, cominciò a indietreggiare, cambiò espressione, non capiva. Chi sei? Continuava a ripetere.
Gli occhi, le labbra rosse e carnose della donna, la sua vestaglia a fiori, tutto diventò informe. Cominciò a colpire ed era rabbia. Per anni non aveva voluto vedere. Il vetro incise la pelle. È così che si fa? Pensava Angela continuando a colpire. Le case rosse. L’odore del sangue. Era dunque quello? Un colpo più deciso e la gola si aprì, il sangue schizzò, scese in rivoli sottili lungo la pelle bianca. La donna scivolò a terra come una foglia. Angela la vide accasciarsi: non conosceva neppure il suo nome. Il collo della bottiglia cadde a terra con un tonfo sordo.
Si guardò le mani, le sue belle mani, segnate dai tagli e dal sangue. Scappò via nella strada deserta. Si tormentava le mani con le mani, continuando a ripetere “devo andar via, devo andar via”, come una nenia nella testa. Per tutta la vita era questo che aveva voluto: andare via.
Molti anni dopo, una mattina di settembre, Giada la aspettava fuori dall’ingresso dell’università.
“Allora com’è andata? ” chiese.
“Trenta” aveva risposto Angela. Era il suo ultimo esame.
Salì in macchina. Giada si mise alla guida. Lungo il tragitto Angela guardava la città dai finestrini: i mercati che pullulavano di teste, le vetrine dei negozi belle da guardare, qualche donna anziana che scendeva lentamente gli scalini di una chiesa, gli uomini in abiti scuri e cravatta colorata che si affrettavano davanti alle banche. Chissà se anche per lei prima o poi sarebbe tornato il momento di farsi largo tra la folla. Non riusciva a vedersi. Adesso le dava un senso di pace non esserci nel mezzo.
Quando la macchina si fermò, Angela scese e si avviò da sola. Ormai non c’era più bisogno che Giada la accompagnasse per dire: “Detenuta con permesso speciale”.
Sentì il portone di ferro richiudersi alle sue spalle. Venti passi fino alla vetrata, li conosceva a memoria. Da lì, oltre, stanze e corridoi, corridoi e stanze.
Fece il tragitto fino alla sua cella e si fermò, aspettando che la guardia di turno le aprisse la porta. Poi fu dentro. Il rumore del ferro, della serratura che scatta. Muri protetti. Il suo letto. Un tavolino. Una grata alla finestra. E più nessun vento.
Scirocco. Umido e appiccicoso.