Un lungo, fatale inseguimento dei sensi. “Cuore di serpente” di Giovanni Montini

Un lungo, fatale inseguimento dei sensi. “Cuore di serpente” di Giovanni Montini

Recensione di Maurizio Carvigno. In copertina: una foto di Giovanni Montini

Giulio Martinelli è uno scrittore in crisi, bloccato dalla sindrome di un foglio bianco che anela il nero dell’inchiostro, un pezzo di carta che stenta a colorarsi di idee, pur agognando le forme di un nuovo, fatale libro. L’ultima fatica letteraria di Giulio risale a tre anni prima, un tempo apparentemente insignificante, ma per lui infinito, inopinatamente dilatato.

I giorni si rincorrono in una primavera che fugge ineluttabilmente via, sognando il ristoro dell’estate. Ma pure in quel passaggio stagionale di inevitabili consegne, l’ansia che quella pagina angosciosamente muta continua a infondere, non smette di turbare Giulio, avvicinandolo al limitare dell’inevitabile baratro.

Occorre una soluzione, qualcosa che inverta il ritmo inerme della vita, traducendo il nome dimenticato della speranza. E allora, in un mare sempre più agitato, increspato da onde incessantemente più minacciose, la zattera da afferrare per evitare un certo naufragio ha la forma delicata di una mano amica e il profilo di una villa a picco su un mare mitologico che ha la voce di saghe antiche, di eroi di un passato imparato tra i banchi di scuola.

Per questo a ridosso del Ferragosto, il momento in cui chiunque pigramente e inevitabilmente si ferma, Giulio decide di trasferirsi da Francesca Bacci, giornalista e amica di vecchia data, anche se, talvolta, fin troppo invadente. Lontano dalla città, cullato dalla tranquillità intrisa dell’odore salmastro di un omerico mare, Giulio spera di ritrovare la creatività di un tempo, anche se le speranze che ripone in quel gancio inaspettatamente calato da un cielo non ancora terso, sono malauguratamente troppo flebili.

Quella villa splendida e solitaria, adagiata sulle creste frastagliate di quello stesso Circeo narrato dal cantore cieco, così diversa dalla sua casa romana, nel residenziale quartiere di Colle Oppio, lo attrae ma, al tempo stesso, lo spaventa, tanto è perfetta da risultare fasulla. Il timore che rapidamente serpeggia mentre la sua auto morde i tornanti che marginano un panorama che toglie il respiro per quella ontologica bellezza, è che neppure tra quelle mura, attraversate da una rassicurante brezza marina, quell’atteso libro prenderà la bramata forma.

Così ha inizio Cuore di serpente, convincente romanzo di Giovanni Montini, la cui cifra narrativa è esplicitata dal breve, intenso, misterioso prologo che precede l’entrata in scena di Giulio Martinelli e del suo mondo a cui fanno da sfondo gli agitati anni Settanta, così intensi, così brevi, così fagocitanti e fagocitati, in cui un’apparente quiete preannunciava l’imminente, inevitabile tempesta.

Cuore di serpente ha il sapore amaro e intenso della nostalgia per un passato ancora così vicino da sfiorarlo, il suono salmodiato del ticchettio romantico di una Lettera 22, la forma rabberciata di una borsa con poche cose da mettere dentro per lasciare più spazio a un’indomabile stanchezza che naufraga al cospetto di un incipiente Ferragosto. Giulio in un caldo mattino di metà agosto lascia Roma che da anni lo ha adottato, allontanandosi non solo da una città ma anche da una vita che non lo seduce più, al pari di Alberto, il suo compagno che a malapena riesce a guardare negli occhi.

Ma in quella villa che occhieggia a un mare azzurro e profondo, Giulio non troverà la tranquillità agognata ma un intreccio di umane, impetuose emozioni, ancestrali pulsioni che hanno il volto imberbe di una giovane tentazione e che lasceranno inevitabilmente il segno, graffiando un’anima già ferita, in un crescendo di situazioni tutte da vivere, tutte da leggere, misteriosi tasselli di un puzzle composto troppo in fretta.

Non voglio aggiungere altro a una trama straordinariamente intensa, ritmata da una scrittura che non lascia scampo al lettore, proiettandolo, fin da subito, a partire dal già menzionato prologo, in un intreccio fitto, una selva oscura in cui ci addentriamo insieme a Giulio, ai suoi turbamenti, alle sue speranze, all’inevitabili attese, sullo sfondo di un Paese che sta vedendo svanire i suoi più genuini ideali nella monotonia di un decennio, quello dei modaioli anni Ottanta, dominato da una patinata volgarità che mette la definitiva sordina alla speranza del sol dell’avvenire.

Cuore di serpente di Giovanni Montino, pubblicato da Bertoni editore, fin dalle primissime pagine si nutre dell’atmosfera unica e irripetibile degli anni Settanta, di cui è seducentemente intriso. La possente scrittura di Montini profila personaggi perfettamente definitivi, su tutti lo sfuggevole Gabriele, i cui richiami cinematografici sono piacevolmente percepibili. Impossibile, infatti, mentre le pagine si rincorrono tra loro, descrivendo una trama via via più complessa e affascinante, non sentire il forte richiamo di una pellicola iconica quale La piscina, il capolavoro di Jaques Deray, in cui Romy Schneider e Alain Delon recitano in una osmosi sensuale e sensoriale, difficilmente replicabile.

La vicenda cinematografica e quella letteraria si scrutano da lontano e, dopo essersi riconosciute, si annusano vicendevolmente, intrecciandosi in una trama impossibile da districare. Leggendo il bel romanzo di Giovanni Montini si riassapora il gusto intenso di un decennio vissuto intensamente e, forse, dimenticato troppo in fretta, scandito da emozioni forti e penetranti, carnali e primordiali che emergono con virulenza, ferite che lacerano pelli scottate da soli fin troppo vicini che bruciarono esistenze segnate da un desiderio spezzato di una totale rivoluzione.

Del film di Deray, Cuore di serpente ha la medesima sensualità, la dirompente passionalità, fatta di concupiscenza, di fiati che si mischiano in un unico afflato, impercettibile anelito di due esistenze che si fondono in un inscindibile momento, fatto di corpi trepidanti di emozioni, affamati di sensazioni, sudati per un coinvolgimento erotico difficilmente sopprimibile, un viaggio attraverso i sensi, in cui il desiderio è anticipato dall’azione di corpi che «si allacciavano tra le lenzuola, uno sull’altro, mentre dalla finestra spalancata giungeva solo il silenzio della notte» in un tripudio di Eros e Thanatos, binomio inseparabile che domina tutto il libro di Montini e che zittisce persino il canto grilli in una lunga, tenera, fatale notte.

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