Cuginanza
Racconto e foto di Wanda Lamonica
“Era una brava donna, zia Lina”.
“Sì. Tanto”.
“In ogni caso, quando qualcuno muore, si dice bene di chicchessia, cara la mia Pulceirritante“.
“E allora che parli a fare, Na?” Sssshhh!!! Ci zittiscono sgarbatamente dai banchi più avanti, nell’Antica Chiesa dei Frati Cappuccini. Sono loro. Le donne pie ma anche le donne puah. Di quelle che metterebbero il dito indice sulla bocca per silenziare pure gli uccellini, all’alba.
Siamo al funerale di zia Lina, mamma dei cugini Polpo e Schiaffo (per tutti, Luca e Riccardo). Il prete parla della morte e del dolore e della forza e del turbamento e del distacco e della salvezza e poi quasi quasi si addormenta. Poi indica la cassa della povera morta, l’affresco sul soffitto, le candele con le offerte, l’organo a canne e persino le foglie secche di certe piante che, col discorso suo, non c’entrano un bel niente.
Chiude gli occhi, li riapre, si porta una mano sul petto, una-due-tre volte. Sospira rumorosamente. Che poi si batte a destra, nemmeno dalla parte giusta. Mi immagino un tanfo di vino e di incenso provenire dal suo respiro catarroso. Don Meringa si alza in punta di piedi per citare qualcosa in latino, più o meno venti parole, tutte cantilenanti e tutte lamentose.
Don Meringa. Lo abbiamo battezzato così, il prete, io e Nardo, subito dopo averlo visto accogliere la macchina lunga e nera con la zia, ormai in eterno riposo, sul sagrato. “Guardalo, Na. Ha una specie di meringa bianca al posto dei capelli”, gli avevo sussurrato, poggiando una mano sul suo orecchio a sventola. Come facevamo da bambini, giocando ai Sette Pettegolezzi e Una Verità.
“Color cacca di piccione, vorrai dire!”, mi aveva risposto Nardo toccandosi il naso per non mettersi a ridere. Poi, siccome Don Cacca di Piccione ci pareva troppo lungo, la scelta del nome era finita dritta dritta sul mio, più sbrigativo, Don Meringa. Nardo. Chi è Nardo? Dunque. Se parliamo solo di parentela, Nardo è semplicemente mio cugino. Se parliamo di cartoni animati, noi due siamo Eros e Pollon. Se parliamo di Vita, io e Nardo rappresentiamo la Gioia pura di volersi bene.
Nell’albero genealogico che da bambina avevo realizzato a scuola, io e mio cugino eravamo disegnati su rami molto vicini. Ricordo che alla maestra avevo chiesto, però, il permesso di aggiungere anche la mia mano unita alla sua. Perché, presi da soli, noi due non creavamo il portento e l’incanto, eravamo solo due bimbi in un mondo immenso.
Da piccini abitavamo nello stesso palazzo. Crescevamo , nelle nostre case con tanti letti e con un cortile in comune, enorme. Con i giocattoli fatti di tutto e di niente. Con le merende assaggiate, divise, rubacchiate dalle dispense. Quando Nardo mi faceva arrabbiare, però, io leccavo via tutto lo zucchero dalle mie ciambelle per non dargliene nemmeno un po’.
“Ma io mica sono schizzinoso, Pulceirritante!”, mi diceva lui, addentando le mie frittelle, tutte umide, che ormai facevano schifo persino a me.
A distanza di anni, noi ci cerchiamo ancora. Ci vogliamo bene. Come e, forse, più di allora. Non siamo più vicini di casa. Ma di anima, sì. Con le chiavi sotto le zerbino. Le sue, le mie. Mentre la Chiesa dei Frati Cappuccini si svuota e la zia si allontana, ormai in eterno riposo, io e Nardo ci sediamo su un muretto per qualche minuto. Ci capita sempre così. Che i ricordi ci velino gli occhi e che la sua spalla diventi sempre il posto perfetto per la mia guancia.
“Te lo ricordi il tuo giochino preferito, Na?”, chiedo.
“Il dinosauro verde”, risponde subito.
“Bravo”, gli dico, “Quello con le zampine anteriori corte che non riusciva ad abbracciare mai nessuno”, aggiungo.
“Mica come noi”, mi dice Nardo abbracciandomi forte.
“Mica come noi”, ripeto io.
(Ma soltanto a mente).