Cronaca di una rimozione
Racconto e foto di Martino Ciano
Nella sua testa girava un programma: annotazioni di vita e di morte, appunti di lavoro da spicciare come si fa con le consegne del pane. A questa lista immaginaria, onnipresente davanti agli occhi della sua mente, aggiungeva a fianco “sì, no, forse”; non era certo di riuscire a seguire la tabella di marcia, non era sicuro di poter viaggiare secondo il ritmo dei suoi pensieri, ma quei “sì, no, forse” erano la sua apparente salvezza. Prima o poi avrebbe portato a termine il programma.
Sì, tutto girava nella sua testa; lui eseguiva gli ordini, procedeva rispettando la paratassi dettata dai suoi desideri: apri la porta, entra nell’ufficio, chiudi la porta, togliti il giubbino, appendilo dove ti capita a seconda del tempo che puoi perdere, accendi il computer, bevi un sorso d’acqua dalla bottiglietta lasciata sulla scrivania la sera prima…
La figura retorica era lui, cacchio! E ora la stava descrivendo agli altri, cazzo! Ma ciò che pensava non corrispondeva alle parole che pronunciava, tra una azione e l’altra, ognuna di esse già appuntate ore prima nel suo cervello, c’erano pensieri, sotto-pensieri, figli di altri pensieri giunti da notti prima, da anni precedenti, da identità del passato.
Mentre aspettava che il computer si accendesse, operazione che durava circa tre secondi, la mente gli suggerì che era malato e paranoico e che il cuore che batteva nel suo petto, producendo un tintinnio che resuscitava il ricordo di lui bambino che picchiettava con la forchetta sul piatto, si sarebbe fermato all’improvviso. E lui ci credette così tanto a quel mormorio della sua mente, che si sedette sulla sedia come se qualcuno ce l’avesse piantato. Si portò la mano al petto, proprio dove sta il cuore, proprio dove nostro Signore lo ha infilato.
La mano stringeva e lui pensava: “la vita è la mia, lasciala qui, molla l’osso”. Intanto la sirena di una ambulanza tagliò il suo campo uditivo. Era successo qualcosa a qualcuno, non a lui e non in quell’ufficio. Il suono si diradò, lui uscì all’aria aperta. Il cielo immacolato, il sole alto e tiepido, una merda di cane sul marciapiede. Tre elementi affollarono il suo campo visivo, un pensiero composto da tre locuzioni indecenti e irripetibili gli attraversò l’agro del cervello, ma non riusciva a capire se quelle parole le avesse pensate lui o il tizio che nella sua mente gli aveva suggerito precedentemente un possibile arresto cardiaco.
Doveva capire per chi strillava la sirena di quella ambulanza. Entrò nel bar, fece un giro di sguardi tra gli astanti, “i colazionisti oggi sono muti come coglioni”. Questa esclamazione squillò nel suo cervello. Era sua, era impregnata del cinismo che lo accompagnava durante le tragedie. Si rallegrò, era tornato in possesso della sua mente. Poteva vomitare disprezzo e violenza contro quell’ignoto disgraziato per cui l’ambulanza saettava. Per colpa sua, la giornata era iniziata male.
Ordinò un caffè, attese con le mani in tasca, quando la barista poggiò la tazzina sul banco di marmo, lui fissò il liquido marron-nero-di-seppia fumante. “Tanto non parla”, disse la sua mente. Lui bevve, pagò, uscì dal locale ed ecco squillare il telefono. Era la persona che cercava, anzi che attendeva; era la fonte primaria che da sempre si trovava al posto giusto nel momento giusto, “scontro a un incrocio, auto contro scooter, nessun ferito; ma è andata bene”. Ringraziò, chiuse l’iPhone, corse in ufficio. Sprizzava felicità, aveva tutto sotto controllo: la vita è autocontrollo, è imparare a controllare gli avvenimenti e le cose; nulla deve sfuggire, altrimenti più qualcosa si allontana più quella cosa produce ansia.
Intanto, nelle sue orecchie tornò il tintinnio della forchetta sul piatto. Non lo fece più da quando sua madre gli diede un ceffone. Quel momento se lo ricordò bene. La mano della mamma sulla sua guancia, lo scontro tra la carne del palmo e delle dita e quella facciale. Lui non rispose, si mise solo a piangere; pianse perché non capiva il motivo di quello schiaffo, pianse per protesta, pianse perché non aveva fatto niente di male, pianse perché tutto intorno a lui era ingiusto.
Ecco anche in quel momento, nel suo ufficio, davanti al computer, a trent’anni di distanza dall’episodio, non aveva fatto nulla di male, ma avrebbe pianto, anche senza motivo.