Cronaca abusiva per il progresso di Tortora

Cronaca abusiva per il progresso di Tortora

Racconto e foto di Martino Ciano

Ammiravamo i palazzi come da bambini guardavamo una giostra girare e pensavamo a una cronaca di abusiva demenza.

Mentre le onde del mare si infrangevano sulle abitazioni, noi pensavamo a quando tutto sarebbe crollato, perché la furia ondosa non la contrasti con provvedimenti speciali, neanche con certe barriere “pennellate” costate pacchi di euro e subito vomitate dal Tirreno incazzato.

Ridendo, con la salsedine tra i denti, ricordammo di quando il mare mise il cappello agli alberi del Lungomare, con quei sacchi di iuta sventrati e depredati della sabbia che contenevano. Il mare, quel giorno, brindò alla faccia dell’ingegneria d’avanguardia, ringraziando per il pasto offerto dai contribuenti.

Poi andammo a mangiare anche noi, ché era domenica e c’era meglio da fare piuttosto che pensare a quelle costruzioni disgraziate, reliquie degli anni Ottanta del secolo scorso. Ricordo quando su un muro di una casa diroccata, che se ne stava ormai vicino alla riva, qualcuno aveva scritto “Bagdad resiste”, e c’era anche la finestra del bagno spalancata, e si intravedeva un accappatoio appeso a una parete color ruggine. C’era pure una spugna abbandonata sul davanzale che chiedeva asilo politico. Era la fine degli anni Novanta. La casa fu abbattuta più di dieci anni dopo, nel nuovo Millennio, in un momento in cui si invocava al cambiamento della razza politica.

Quando le ruspe distrussero quell’ammasso di cemento, tutti tirarono un sospiro di sollievo, come si fa alla fine di una dolorosa lotta contro la propria stitichezza; quel pericoloso manufatto era rimasto anche troppo lì. Prima di quel momento però era stato considerato un monumento. Per noi ragazzini della generazione anni Ottanta era stato un probabile trampolino per tuffarsi in mare. Me lo ricordo quel mio amico, ormai cittadino della Toscana, che prometteva a ogni nuova fidanzatina estiva che un giorno si sarebbe tuffato da ciò che rimaneva del balcone. Non lo fece mai, avrebbe rischiato di infilzarsi con qualche ferro.

Quando abbatterono la casa con l’ingresso nel mare, certi tizi, adolescenti e già urbanizzati, bagnanti di seconda generazione, si incazzarono parecchio. C’era un punto in quella abitazione, sotto cui potevano rifugiarsi per spacciare scarpe, autoradio e pure una crema profumata che si fumava. “Mo’ la visuale è diventata ampia. ‘Sti calabresi bastardi!”, disse uno di loro quando vide per la prima volta la rigenerazione urbana.

Questi ricordi abusivi ci bussarono in mente sempre durante quella mareggiata che distribuiva acqua tra gli appartamenti e le strade. Ma era domenica, bisognava andare a pranzare. Il mare non lo fermi con lo sguardo, la fame invece si placa solo davanti al piatto.

Stazione di Praia a Mare

Ora è tutto calmo, il mare sussurra alle pietre, ma si prepara a colpire. Ogni anno il nostro mare alza la voce. L’amico mio mi spiega anche che tra qualche decennio da qui passerà l’Alta Velocità; nuovi sogni ferroviari invaderanno il paese e taglieranno in due i precedenti abusivismi edilizi. Se ne creeranno altri, però, ma saranno legali, approvati dallo Stato, quindi non ci sarà bisogno di sanatorie, di condoni, di atti di demolizione comunali.

Vedrai, mi dice l’amico mio, arriveremo al Nord più velocemente, emigreremo in meno di tre ore e le madri potranno mandare ai loro figli le borse termiche con salsicce, soppressate, melanzane e fusilli fatti in casa anche ogni giorno. Credimi, sarà come se non ce ne fossimo mai andati. Torneremo a Natale, a Pasqua, a Ferragosto e anche durante i “ponti”. Finalmente, il progresso arriverà anche qui!

Le onde sono placide, i palazzi sono stati imbiancati, la strada è stata ricostruita e i danni riparati. Si attende che tutto torni come prima, con i buchi nelle pareti, i muri sbrecciati, le fondamenta pericolanti ben in vista, la strada divelta come un tubo di lamiera. Poi si metterà di nuovo tutto a posto; siamo felici nel nostro eterno ritorno.

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