Condividere ai tempi dei social network

Articolo di Adriana Sabato

Condividi nella tua storia, si legge così sul profilo Facebook – Meta, boh, come si chiami ancora non lo so – quando invita a formulare ed estendere i propri pensieri e le proprie opinioni ad un insieme di persone, di amici che abbiamo incontrato in questa piazza virtuale o che conosciamo di persona…personalmente!

Un’agorà che non piace a tutti, ma nella quale tutti sono più o meno presenti. Tutti scrivono e condividono. La nuova socialità passa attraverso una rete, una maglia sottile che va ad aggiungersi ad altre maglie – formando la rete – e alla quale tutti ormai possiamo accedere.

Nulla di nuovo, anzi, scontato che sia così: il contrario non è ammesso. Come, non sei su Fb?

Sembra quasi oltraggioso non esserci…

Tutti uguali? Tutti assuefatti? Mi viene da dire. Forse sì, forse no. Chi c’è, ok, e chi non c’è va a guardare ugualmente, si affaccia da questo davanzale sociale per dare un’occhiata: se pò fa, dicono i romani. Non solo i giovani, e no, eh, questo luogo comune è da sfatare.

Umberto Galimberti, il celebre filosofo il sociologo, si interroga, rispondendo alle lettere di numerosissimi giovani e non solo, sulle ragioni della loro dipendenza dai social network. Con lucidità estrema, esamina il problema. “Siamo malati di social network?” si chiedono. E poi si rispondono: “No, è quel modo di comunicare la vera malattia, perché ciò che si mostra in quella vetrina virtuale è quanto vorremmo che gli altri vedessero di noi, il desiderio mai morto di costruzione di un nuovo io, la ricerca di approvazione, più che di reale comprensione”.

La conclusione di Galimberti appare incoraggiante. “È interessante constatare una sorta di disaffezione da parte dei nativi digitali nei confronti dei mezzi informatici. Possiamo pensare che il ritorno al mondo reale, dettato dalla nostalgia e dal bisogno, cominci proprio da loro, e che si continui ad andare in piazza, come si faceva fin dai tempi antichi, ad interrogarsi e confrontarsi su questa e molte altre cose?”

Ma poi, siamo sicuri che siano solo i giovani le vittime di questo nuovo “gioco”,  visto che invece per i più attempati sembra o rischia di esserlo? Oppure per i giovani rappresenta solo un mezzo? Troppi signori e troppe signore lo considerano davvero “nu iucarill” e lo adoperano senza saperlo realmente usare…

Quanto sia vero il fatto che questa nuova piazza non sia semplicemente un modo alternativo di fare semplice gossip o anche peggio, l’altro modo di aprire discussioni e polemiche senza alcun senso e anche molto pericolose per la sanità mentale sic et simpliciter, non è dato saperlo con certezza. La piazza è troppo ampia e i pregiudizi tanti; certo è che per molti a volte rappresenta l’unico modo di comunicare e di avere (forse) una vita sociale, di fare nuove amicizie e altre esperienze e non come potrebbe essere nella realtà tangibile.

Però è un qualcosa, quel qualcosa che, saputo usare, serve, e per alcuni serve davvero. È, oserei dire, una vera consolazione per chi vuole comunicare con affetti lontani, fisicamente lontani e con amici conosciuti in occasioni, le più disparate – che, senza il mezzo tecnologico, finirebbero inevitabilmente nel dimenticatoio e sicuramente nell’oblio.

E scusate se è poco…

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