Clarice Lispector. Acqua viva… nella gioia e nel dolore
Recensione di Antonio Maria Porretti
“Voglio scrivere movimento puro”.
Con questa dichiarazione iniziale in “Un soffio di vita”, l’ultimo dei suoi testi pubblicato nel 1978 dopo la sua morte avvenuta un anno prima, Clarice Lispector affermava e riassumeva il principio cardine di tutta la sua opera. Sarà per questo che quando la leggiamo, si avverte una corrente d’irrequietezza scorrerci fra le mani. Un vento di sfida che si leva e propaga dalle sue pagine, in cui lei si mette in competizione con se stessa, con il flusso dei pensieri che l’attraversano e che vorrebbe riprodurre sul foglio nell’immediatezza del loro affiorare.
Non è richiesto e non è importante capire, bensì mettersi in ascolto, lasciarsi investire e trascinare da quella corrente. Per Lispector, la priorità non è raccontare una storia o mettere in scena dei personaggi, ma modellare una lingua che lei riconosca come utero materno dove rientrare e ritrovare una condizione di feto, primordiale. Il bisogno di ricreare il senso di un’origine coincide con la necessità stessa della sua scrittura, che possiamo meglio comprendere ripercorrendo la sua biografia.
Nata in Ucraina nel 1920 da una famiglia ebreo-russa, Clarice Lispector aveva solo due anni quando dovette abbandonare il suo paese a causa dei pogrom voluti dal nuovo regime sovietico dopo il disfacimento dell’impero zarista. In Brasile, lei e i suoi familiari avrebbero trovato una terra adottiva, d’accoglienza, in cui ripiantare le proprie radici. E al Brasile avrebbe fatto sempre ritorno, alternandolo ai lunghi periodi trascorsi in Europa e negli Stati Uniti per seguire la carriera diplomatica del marito, Maury Gumel Valente, sposato nel 1944. La scelta del Portoghese come sua lingua d’espressione fu per lei il mezzo per recuperare una genesi, un’identità all’interno di una dimensione cosmica.
In “Acqua Viva”, considerato il suo capolavoro, tale ricerca viene spinta all’estremo, all’apparenza negata ma in realtà tesa al raggiungimento di un livello superiore, seguendo un percorso di perdita progressiva dell’Io, per inglobare nel processo di un’autentica e completa identificazione anche tutto ciò che è astratto eppure esiste. Quell’energia che i nostri sensi non recepiscono, ma che dà vita alle nostre visioni, ai nostri sogni e pensieri che giacciono come larve in un ultraterreno in cui tutto e niente si compenetrano, diventando unità da cui ogni manifestazione di vita prende origine. Lì ha sede il principio dell’inizio.
La voce narrante della protagonista – una pittrice di cui non conosciamo neppure il nome e che tenta a sua volta di scrivere una lettera-confessione a un suo probabile ex amante, anch’egli solo designato da un generico Tu – non fa che ribadire la sua volontà di rinuncia a questa dimensione claustrofobica dell’essere, delimitata da un pronome soggetto che ne impedisce ogni possibilità di ampliamento e espansione, a vantaggio dell’È, indefinitezza allo stato puro, pulsazione e spasmo del pensiero, liquido che fuoriesce dalla placenta cranica per dare sostanza e significato al tangibile.
Acqua Viva per risalire fino alle zone situate alle spalle del pensiero, a quel ridosso che ne anticipa la nascita. Dov’è più facile coglierne la velocità della crescita; dove l’anima può essere sentita come corpo; dove il corpo diventa contenitore universale. Lo stato di grazia, il giardino dell’Eden evocati più volte dalla protagonista, non sono che aspirazione al ritorno e ritrovamento di una condizione acquea che le consenta di entrare più agevolmente dentro se stessa, all’interno dei suoi occhi, dei panorami che guarda, degli oggetti che la circondano e che a loro volta la osservano.
Così, in questa relazione di sguardi incrociati, lei vede scorrere parallelamente passato e presente. Così come vede le gioie dei tanti ieri che fiancheggiano le amarezze dei troppi oggi, simili a cellule indivisibili di una creazione chiamata Vita.