Bret Easton Ellis, American Psycho, Einaudi
Recensione a cura di Martino Ciano – già pubblicata su Zona di Disagio
Patrick Bateman, ventisei anni, ricco, bello, facoltoso. Veste abiti firmati, frequenta locali famosi e palestre esclusive, lavora a Wall Street, abita a Manhattan.
Patrick Bateman, ventisei anni, di notte si trasforma in un serial killer. Uccide per noia, tortura per rabbia, alcune volte cucina e assapora le sue prede. Le sue vittime sono soprattutto giovani donne.
Patrick Bateman, ventisei anni, ama la pornografia, il suo idolo è Donald Trump, il suo film preferito è Omicidio a luci rosse. Beve solo acqua Evian, è fanatico dall’alta tecnologia, secondo lui per l’umanità non c’è salvezza e non c’è redenzione.
American Psycho esce nel 1991. È ambientato negli anni ’80. Sono gli anni in cui la società consumistica implode. Il benessere è lo spettacolo più interessante che la democrazia Made in Usa, imposta all’Europa, allestisce per l’occidente. L’ingresso è libero. Tutti possono sedersi e godersi lo show, pochi possono salire sul palco, ma questa è un’altra storia. Fatto sta, che tanto gli astanti, quanto gli attori sono soggetti alle medesime regole: deificazione della merce, spersonalizzazione e disintegrazione dell’individuo in favore di un atteggiamento egoistico astratto. In poche parole, l’essere perde la propria anima e colma il vuoto con miti e modelli usa e getta e con un vocabolario minimo che sconvolge il linguaggio.
In tutto questo che valore ha la vita umana?
Questo libro è compulsivo come il suo personaggio. È il protagonista che ci racconta ogni istante della sua vita. I suoi pensieri sono meccanici, freddi, privi di sentimenti. Non c’è traccia di amore in Bateman, ma anche rabbia, violenza e malvagità sono senza colore. Per lui, uccidere è normale come acquistare una cravatta. Ma c’è un particolare che prende forma pagina dopo pagina: anche gli amici di Patrick sono come lui, non uccidono solo perché conservano l’ultimo barlume di lucidità.
Nella società spersonalizzata l’individuo è in guerra contro se stesso. La violenza, la droga, il sesso, la ricerca della fama, del potere e della ricchezza sono le armi messe a disposizione dell’uomo post-contemporaneo. Paradossalmente, l’obiettivo non è annientare il nemico, il sé, ma renderlo socialmente accettabile. Logicamente, più in alto si sale, più si è accettati.
Ma si può soffocare la propria essenza? No, ognuno è ciò che è.
American Psycho è questo: un decalogo morboso sugli anni Ottanta, decennio in cui hanno preso vita vizi che ben conosciamo. Bret Easton Ellis ha scritto una piccola profezia. Ha usato la narrativa per raccontare una tragedia ben più grande, che ancora si consuma davanti ai nostri occhi. Patrick Bateman non è solo un killer, ma un uomo senza personalità, intrappolato nelle regole della sua classe sociale. La violenza e la pornografia sono forme di ribellione e di evasione che riportano in vita la sua onnipotenza. La sua psiche non è solo malata, ma è anche condizionata dalla paura per la semplicità e la sobrietà.
American Psycho è soprattutto un romanzo che delinea i connotati di tanti nostri eroi odierni, che, anche senza spargere sangue, uccidono con la loro anonima disumanità.