Bozzetto di una fuga

Bozzetto di una fuga

Racconto e foto di Antonio Maria Porretti. Questo racconto è stato tradotto dal francese, pertanto, per volontà dell’autore riproponiamo anche la versione in lingua originale

In seguito, venuta meno ogni mia audace pretesa di perseveranza, i sillabari della mia abdicazione – nel consegnarmi al contrabbando del mio disgusto e disprezzo – assolvevano in pieno alla loro missione. Il crollo dei miei castelli in aria. Analfabeta di me stesso, radiato dall’attesa di una metropolitana che mi scavava in fondo agli occhi, d’un tratto m’appariva chiaro quale nome dovessi attribuire al convoglio che già digrignava sulle rotaie prima del suo arrivo. Come pure alla corsa sonnambula che stavo intraprendendo. Alle piccole pozzanghere afflosciate sul pavimento della fermata Charonne, fuoriuscite dagli sgocciolii di frustri ombrelli di una livida sera di dicembre, pettegola di nebbia. In particolar modo, all’irrevocabile amputazione che incalzava per svolgersi in piena Gare de Lyon; tra frammenti di assoluta indifferenza e intontita interferenza dell’accesso ai treni. Soltanto un nome, che vedevo ora dispiegarsi come un cartellone pubblicitario del mio “Senza Domani”.

Avevo sempre sentito dire che il giorno di Santa Lucia lasciasse prefigurare la rivincita della luce sulle tenebre. Che assurda barzelletta! Tanto più ora che mi accingevo a provare il contrario, nel procedere sempre più spedito come facevo, verso un’immutabile sequenza di giorni agganciati a notti opprimenti; che non avrebbero oltrepassato nessun confine stabilito, tracciato e abitato dalla mia ombra. Nulla più che macerie di una trasparenza opaca, da salvaguardare con il garbo, la compostezza e quiete garantiti a risarcimento della mia cella. Dove, come e quando, erano solo dettagli senza alcuna importanza e di cui, al limite, avrei potuto regolarmente fare a meno. Che ore erano di preciso? Il tabellone delle partenze segnava le ore 22.00. Il binario del mio treno: 21. Messe assieme le due cifre offuscavano spirali di un tempo marcio perfino alle acque stagnanti della mia mente…

Poca era la gente raccolta nelle sale in continuità l’una dell’altra. Eravamo installati tutti come manichini sotto l’insegna di qualche rinomato Grande Magazzino, mettendo in risalto angosce, disillusioni e dispiaceri, riversati sui nostri volti da una giornata che volgeva al termine. Dalla volta a vetri imbavagliata di noia, il freddo mi veniva incontro, animandosi come un ragno pronto a incapsularmi nella sua tela, valutando me preda idonea per il conforto e trastullo delle sue zampe. Avevo quasi l’impressione di ritrovarmi esposto a un deprecabile abbordaggio, per quanto mi marcasse a stretto giro, accarezzando la mia nuca con il suo alito. Eppure, non poteva che fallire dinanzi all’irreprensibile glacialità posta in allarme del mio cuore. Nel frattempo, m’impietrivo, con lo sguardo ipnotizzato dalla perfezione solenne che gli istanti prossimi alla mia disfatta spargevano intorno alle mie pupille.

Era l’inizio di una sciarada, dalle formule accantonate nelle quinte del mio bagaglio; da obliterare sul rettangolo di un viaggio di andata senza ritorno. Che se non altro esortava tanto alle virtù dell’assenza , quanto dell’astinenza. Nel dettaglio, il trasferimento delle mie ceneri e il loro prossimo ricollocamento da un cimitero all’altro. Al seguito della mia più grande vergogna, lasciando che si adattasse meglio alle esilità del mio cappotto blu scuro. Senza smettere di stringermela alla cintura, per paura che mi scappasse, lasciandomi così a nudo perfino della sua pelle, ora che si era sostituita alla mia epidermide. Come un bambino che in vista di futuri successi scolastici segna con colori differenti le parole sul quaderno, respirando, seguitavo a articolare: Vigliaccheria…Perdita…Fuga…Follia…

I minuti correvano. Inutile voltarsi ancora indietro. Maurice non sarebbe più riapparso all’orizzonte. Non avrebbe più slanciato le sue braccia per tenermi stretto a sé. Non si trattava delle sequenza finale di uno di quei film sentimentali con cui mi ero rimpinzato la testa fin dall’infanzia. Nel logoramento, me ne andavo via da Parigi accecato e assorbito da un ossessionante rifiuto di me stesso. I suoi sfondi si erano fatti troppo scabri e ostili, specchio di una perfidia troppo sulfurea da sopportare . Nella lacerazione, mi separavo da Maurice non potendogli più offrire che le scorciatoie e scoscese di un corpo soggiogato da una spugna nera. Che soltanto i progressi della sua cancellazione avrebbero potuto consolare. La pienezza del suo amore, la bellezza a firma della sua persona e della sua anima, la sua fiducia e confidenza, le premure del suo affetto e più di ogni altra cosa, il suo avvenire, erano cose che non meritavo più. Dovevo liberarlo della mia presenza, affinché cercasse e trovasse la sua felicità altrove. Lontano da me, accanto a qualcuno in grado di parlare la sua stessa lingua. Quella che non ero mai stato in grado d’imparare, incapace di aspirarne l’aroma degli accenti, modellandomi alla loro dolcezza. L’abbandono. Non avevo altro mezzo per comunicarli che malgrado tutti i miei errori e le mie colpe, a modo mio, anch’io lo amavo. Che lo avrei amato per sempre. E che il mio allontanamento mirava alla salute del suo benessere. E che forse un giorno le avrebbe comprese le ragioni della mia “evasione”, come avrebbe potuto dire lui. Era la mia unica speranza, il mio estremo rimpianto, l’ultimo bacio da posare sulle sue labbra. Il suo ricordo, l’unica gioia da ritrovare nella solitudine di una vecchia camera di clausura.

Nello scompartimento dove avevo appena preso il mio posto, non c’era nessuno. Una fortuna inaspettata, della miglior specie. Con il viso incollato al finestrino, potevo perlomeno disciogliermi e svanire nelle raffiche che sfuggivano all’esterno.

Croquis d’une fuit

Après, au manque de toute mon audacieuse et prétendue persévérance, les abécédaires à mon abdication – me livrant aux contrebandes de mon dégoût aussi que de mon mépris – venaient-ils d’exploiter leur mission. Mes châteaux en Espagne s’écroulaient. Subitement, analphabète de moi-même et rayé par cette attente du métro qui me creusait jusque au fond de mes yeux , je m’avisais du nom qu’ il fallait donner à cette rame crissant déjà ses rails avant qu’elle n’arrive. Tout de même qu’à cette course aux somnambules à laquelle je m’engageais. À ces petites flaques affaissées sur les carrelages de l’arrêt CHARONNE, issues des dégoulinades de ces parapluies froissés d’un morne soir de décembre, aux bavardages de ses brumes. Notamment, à cette irrévocable amputation hâtée de se dérouler en pleine Gare de Lyon , bientôt entrecoupée par l’assourdissante indifférence et abasourdie interférence de son accès aux lignes. Un nom, un seul nom que maintenant je voyais se déployer comme une affiche à la publicité de mon « Point de Lendemain ».

J’avais toujours entendu dire que la Sainte Lucie allait-elle arborer la revanche des lumières sur les ténèbres. Quelle blague ! Quelle sottise ! D’autant plus que tout à l’heure j’allais bien témoigner le contraire, m’approchant tel que je faisais à cette invariable suite de jours accrochés à des nuits accablées. Qui ne dépasseraient nulle frontière déjà fixée, tracée et habitée par mon ombre. Rien qu’une transparence détruite, opaque, à garder avec la politesse, la sagesse et le repos assurés et dédommagés du côté ma propre prison. Où ? Quand ? Comment ? Ce n’étaient que des détails sans aucune importance et dont, à la limite, j’aurais pu carrément m’en passer. Il était quelle heure au juste ? Le tableau des départs marquait 22.00 h. La voie à mon train : 21. Tête-à-tête, les deux chiffres brouillaient les spirales d’un temps si pourri même aux eaux dormantes de mon esprit…

Il y avait peu de monde rassemblé à l’intérieur des salles s’enchaînant les unes après l’autres. On y était tous installés comme des mannequins à l’enseigne de quelque célèbre Grand Magasin, étalant les angoisses, les déceptions et les mécontentements que la fin de journée venait de relâcher sur nos figures. Depuis les vitrages bâillonnés d’ennui de la voûte, un air froid bougeait à ma rencontre. Il paraît s’animer à l’image d’une araignée prête à me blottir dans sa toile, m’estimant une proie apte au confort et au loisir de ses pattes. J’avais même l’impression de me retrouver à l’affût d’une drague assez minable, tant qu’il me talonnait du plus près pour me caresser la nuque de son haleine. Pourtant, en dépit de l’adresse qu’il octroyait à mon égard, il ne pouvait qu’échouer face aux alertes qu’une irréprochable glace venait d’installer chez mon cœur. Cependant, je demeurais médusé, mon regard presque hypnotisé, à cause de cette perfection solennelle, dégagée tout autour de mes prunelles par ces instants proches à ma débâcle. C’était le début d’une charade aux formules cantonnées dans les coulisses de mon bagage ; prête-à-composter sur le rectangle d’un aller sans retour. Qui prônait quand même soit les vertus de l’absence que de l’abstinence. Au détail, le voyage du transfert de mes cendres et de leur prochain aménagement d’un

cimetière à l’autre. À la traîne de ma plus grande honte, laissant qu’elle s’ajuste au mieux des minceurs de mon manteau bleu foncé. Je n’arrêtais guère de la serrer à ma ceinture de peur qu’elle ne m’échappe, me dépouillant même de cette peau qui venait de remplacer mon épiderme. Ainsi qu’un écolier qui va cocher d’une couleur différente les mots sur son cahier en vue de ses prochains succès scolaires, de mes souffles, je ne me lassais point d’articuler:

Félonie…Faillite…Folie…Fuite…

Les minutes s’écoulaient ; inutile de me tourner à nouveau en arrière. Maurice, il ne réapparaît jamais à l’horizon, il ne buterait plus ses bras pour me nicher contre lui. Ce n’étaient pas les derniers photogrammes de quelque mélo dont je m’étais gavé la tête depuis mon enfance. Épuisé, j’allais quitter Paris aveuglé et absorbé par cet obsédant refus de moi-même. Ses décors, ils étaient devenus trop raboteux et hostiles, reflétant d’une perfidie trop sulfureuse et malsaine, pour que je la supporte encore. Déchiré, je m’éloignais de Maurice, n’ayant plus que à lui offrir les abrégements et les éboulements d’un corps sous l’empire d’une éponge noire. Soulagé par les seuls progrès de son effacement. Cet amour dont il m’avait comblé, cette beauté à la signature de sa personne et de son âme, sa confiance, son amitié, ses soins, son attachement, et pardessus de toute autre chose, son avenir, je ne les méritais plus. Il fallait que je le débarrasse de ma présence, pour qu’il cherche et trouve ailleurs son vrai bonheur, loin de moi, à côté de quelqu’un parlant sa même langue. Cette langue dont je n’avais jamais su apprendre les tournures, incapable de m’en embaumer et de me modeler à la douceur de ses accents. L’abandon. Je ne disposais que de ce moyen pour lui signifier qu’en dépit de tous mes défauts, malgré toutes mes fautes, à ma façon, moi aussi je l’aimais. Que je l’aimerais à jamais. Que je me dégageais, visant à sa santé et à son bien-être. Qu’un jour – peut-être- il arriverait à comprendre les raisons de ma « cavale », aussi que l’aurait lui dit. C’était mon unique souhait, mon extrême regret, mon dernier baiser à apposer sur ses lèvres. Son souvenir, ma seule jouissance à retrouver chez une vieille et solitaire chambre où j’allais me cloîtrer. Dans le coupé où je venais de retrouver ma place, il n’y avait personne. Quelle chance inattendue, et de la meilleure espèce ! Du moins, Le visage collé à la vitre, je pouvais me dissoudre et estomper grâce aux rafales qui filaient au grand air.

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