Riflessioni su “Bach”. Pedro Eiras e il mosaico di un compositore

Riflessioni su “Bach”. Pedro Eiras e il mosaico di un compositore

Recensione e foto di Riccardo Sapia. In copertina: “Bach” di Pedro Eiras, Il ramo e la foglia edizioni, 2022

La lettura di “Bach” inizia con una lettera, una sorta di prece, che Anna Magdalena, seconda moglie di Johann Sebastian Bach, scrive alle autorità locali, e in cui chiede un aiuto economico affinché lei e, soprattutto, i loro figli possano, dopo la morte del musicista, continuare a condurre una vita dignitosa. Questa è l’unica parte del libro che racconta la verità, così come vissuta da Anna Magdalena, il resto è finzione, è rappresentazione, associazione, evocazione, è perfino invocazione.

Seguono questa lettera, a tratti davvero commovente, tredici “contributi” di personaggi della storia, anche recente, che in qualche modo evocano la figura del musicista. Tredici racconti, quindi apparentemente separati, ma al contempo fortemente legati da temi conduttori che rappresentano i fili lungo i quali si dipana la storia, o le storie, all’interno delle pagine di questo bel libro: la genitorialità, il silenzio e, ovviamente e soprattutto, la musica. Il secondo capitolo, immediatamente dopo la lettera di Anna Magdalena, è speculare al primo, si sovrappone, anzi, sembra un prolungamento del primo. Si tratta di una biografia, scritta da Esther Meynell nel 1925, nella quale l’autrice veste i panni di Anna Magdalena, a tal punto da confondere il lettore per la precisa e puntuale immedesimazione dell’autrice nel ruolo della protagonista, portandoci, a tratti, a ravvisare in questo racconto più che altro un’autobiografia, piuttosto che una biografia. Questa sua scelta è, secondo me, geniale e funzionale al passaggio “indolore” nel libro, dal racconto della verità a una rappresentazione della finzione.

L’ordine progressivo con cui Pedro Eiras introduce, via via, gli altri personaggi, di cui leggiamo le pagine, per quanto, come ho detto sopra, apparentemente incoerente, possiede una precisa sequenzialità che conferisce al libro una straordinaria e inaspettata unicità. C’è un dubbio, una domanda, che viene posta in alcuni paragrafi iniziali, e che sembra diventino, all’interno del capitolo su Gustav Leonhardt, di capitale importanza: se e fino a dove è possibile interpretare la musica di Bach in maniera fedele al suo compositore? Se lo domanda e lo domanda all’amico Nikolaus in una lettera. Partendo dal presupposto che non abbiamo per ovvie ragioni alcuna registrazione originale dell’epoca, Leonhardt fa le sue conclusioni, sostenendo che i nostri tentativi devono convergere nel tentativo di ripristinare, quanto più fedelmente, lo stato delle cose dell’epoca: gli stessi strumenti musicali, lo stesso materiale con cui venivano costruiti. Si preoccupa perfino di riprodurre, immedesimandosi nel compositore, lo stesso ambiente, immaginando e recuperando i suoni che avranno fatto da sottofondo alla sua musica. Infine, Leonhardt sostiene l’importanza di un’acquisizione fedele e pedissequa dello spartiti musicali. Tutto ciò, per ovvie ragioni, si presenta alquanto difficile, se non addirittura impossibile. Ma lui ci vuole provare, trascorre, infatti, gran parte del suo tempo a trascrivere le partiture di Bach, in maniera puntuale e precisa, quasi maniacale. Ciò nonostante, è sempre più convinto che suonare Bach, il tentativo di raggiungere l’autenticità dell’opera, si rivelerà, ahimè, una mera interpretazione che, per quanto ottima possa apparire, sarà sempre e inevitabilmente viziata dal tempo trascorso e dalla nostra assoluta ignoranza dei contesti in cui le opere furono create.

La lettura prosegue con altri racconti, che io preferisco chiamare contributi, sempre diversi tra loro sia dal punto di vista storico che da quello argomentativo, ma, ciò nonostante, capita di incontrare elementi – parole, concetti, affermazioni – già visti (letti) in un capitolo precedente. Queste io le definisco delle piccole ancore che servono a tenere legate le pagine del libro, trasformando i racconti in capitoli.

Uno degli ultimi, capitoli appunto, è dedicato a Etty Hillesum, e qui l’autore compie un’operazione semplicemente geniale. Dopo avere raccontato le storie precedenti evocando in vari modi la musica del compositore, a volte semplicemente nel ritmo con cui seleziona le parole, compie una scelta davvero coraggiosa, sceglie la musica come assenza, sceglie il silenzio, quello necessario che, dopo il racconto di Etty della sua esperienza con la Shoah, ritiene che tutto ciò non possa lasciare spazio alla musica, ogni forma d’arte viene fagocitata dalla bruttura di un’esistenza che grava sulla testa della protagonista e dei suoi compagni come la lama della ghigliottina pronta a precipitare e farla, così, finalmente finita. Non a caso il racconto successivo, “Ich habe Genug”, si presenta così strutturato: cinque pagine bianche dove ognuno di noi può avere l’opportunità – cerco di interpretare la volontà dell’autore – di scrivere la sua musica, quella musica che restituirebbe dignità ai milioni di uomini deportati e uccisi, gli stessi per cui mai nessuno è stato in grado di scrivere le implausibili ragioni del perché sia accaduto tutto ciò.

Pedro Eiras dimostra in questo romanzo di possedere una grande capacità narrativa, ma anche un eccellente uso della lingua che esplicita attraverso l’utilizzo, nel caso specifico, dei più svariati registri linguistici. Dimostra, altresì, di possedere una straordinaria cultura che spazia nei più svariati ambiti artistici, con una competenza e una conoscenza del dettaglio che provengono da un animo sensibile, portato e votato al mestiere dello scrittore a tutto tondo e che riesce a fare di un “miscuglio” di racconti, ribadisco, apparentemente incoerente, della vera e propria letteratura.

Un plauso va anche alla traduttrice, Michela Graziani, che col suo lavoro è riuscita a farci arrivare un libro di racconti con la coerenza straordinaria che certamente possiede nella sua lingua di origine.

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