Blonde. Marylin Monroe tra mente e corpo
Articolo di Letizia Falzone
Chi più di Marylin Monroe rappresenta quell’ibrido tra sogno americano, sensualità e costruito divismo hollywoodiano che ha portato Norma Jean da un’infanzia travagliata ai riflettori di una Hollywood che l’ha plasmata a sua immagine e somiglianza. La “Mecca del cinema” prende una bella ragazza di Los Angeles e ne fa il perfetto stereotipo femminile, quello della bellissima bionda, un po’ svampita, che tutti gli uomini avrebbero voluto nel loro letto, ma impossibile da gestire nel loro quotidiano, fatto invece di figure femminili rassicuranti da spot pubblicitario, madri e casalinghe regine dei fornelli. Un cliché vivente quello di Marilyn Monroe che Norma Jean ha indossato, sfruttato, cavalcato e poi inesorabilmente subíto in un mix di sogni infranti e desideri realizzati che sono diventati una sorta di ubriacatura costante per l’attrice.
Sulla vera identità di Marilyn Monroe, su chi si nascondesse sotto quella celebre pettinatura bionda, si sa ancora oggi poco. Perché quando Marilyn era viva, non importava cosa pensasse, lei era soltanto il passatempo dei mariti quando le mogli non erano a casa, una divina, sorridente, ammiccante “pupa”. Nulla più.
Andrew Dominik ha fatto scalpore al Festival di Venezia con “Blonde”, in cui ha fotografato una Marilyn fatta di paure, tormenti, ossessioni, paranoie e soprattutto carne, traendo ispirazione dall’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates, lo stesso che ha concorso alle finali per il Premio Pulitzer nel 2000.
Scissa in due personalità differenti: da una parte Norma, donna fragile, traumatizzata e alla continua ricerca di una figura paterna surrogata, dall’altra Marilyn la diva in grado di far perdere la testa agli uomini, di far capitolare star dello sport e potenti uomini politici; una forza della natura il cui vero talento spesso veniva soggiogato nel momento in cui Norma tentava di affermarsi e mostrava un lato reale ed emotivamente tangibile, lontano dal sogno costruito, qualcosa che Hollywood non si poteva permettere.
Il regista costruisce una narrazione a tratti onirica in cui la realtà viene inesorabilmente manipolata, in cui i molti soggetti restano tutti sullo sfondo, a tratti sfocati e in qualche caso appena abbozzati. Al centro della tela rifulge struggente e bellissima la Norma/Marilyn di Ana de Armas, una Marilyn come non l’abbiamo mai vista prima: audace e sensuale, ma anche disperata e abusata, sfrontata e talentuosa, ma anche sperduta e bisognosa d’affetto come quella bambina senza un padre, e con una madre instabile devastata dalla follia che ne ha segnato indelebilmente l’infanzia.
“Blonde” racchiude in sé anche tutti quegli elementi in grado di turbare una parte di platea più sensibile, contenuti sessuali che sfiorano l’esplicito, un forte senso di disagio che si prova per le scelte di regia di Dominik, che trasforma la visione in un’esperienza visiva e sonora forte e non semplice da gestire emotivamente, ma la scelta di demarcare il lato psicologico alla fine risulta azzeccata poiché dopo la visione di “Blonde”, grazie anche all’incredibile somiglianza di Ana de Armas con l’originale, sarà davvero difficile poter guardare Marilyn Monroe allo stesso modo.
Norma Jean impara la contraddizione: ciò che dice di amarti, ti ferisce. Lo fa tuo padre, anche se non lo conosci. Lo fa tua madre, anche se pensi di conoscerla. Assistiamo alla sua infanzia e impotenti, vediamo una bambina malmenata dalla furia di un genitore privo d’affetto. Il regista Dominik accarezza la pelle di Marilyn nella sua trasformazione da Norma a Monroe. Così tutto è mostrato, tutto, dal corpo sensuale e sfacciato fino agli aborti.
Attraverso una esorcizzante ed efferata analisi psicologica, comprendiamo il rapporto travagliato tra l’attrice e suo padre, che anche nella realtà Norma non ha mai avuto modo di conoscere. Un dettaglio rilevante, perché comprendiamo che Marilyn in “Blonde” è sostanzialmente, nel corso di tutta la sua vita, un’innocente bambina che sta cercando suo padre. Lo cerca nel suo rapporto poliamoroso con Charles “Cass” Chaplin Jr. ed Edward G. “Eddy” Robinson Jr., in cui si rivede, si libera e scopre le gioie di una maternità perduta. Lo cerca successivamente in Joe DiMaggio, il marito geloso che la picchia per ciò che lei rappresenta. Lo cerca infine, ancora una volta, nel matrimonio con Arthur Miller, con un dolce Adrien Brody e un’altra gravidanza. Ma Marilyn non riuscirà mai a essere madre e il suo “daddy“, così come l’ha spinta verso la luce alla nascita, la spingerà verso la luce, per l’ultima volta.
“Blonde” mi ha spiazzata, angosciata, devastata. In molti tratti lento e pesante, sia per la lunghezza del film (167 minuti), sia per la gravità dei temi trattati. È un film che sa fare male e ridurrà molti di quelli che lo guarderanno a minuscoli pezzetti e brandelli. Se siete donne, potrebbe farvi anche più male.
Tuttavia “Blonde” deve essere visto. Deve essere visto, soprattutto in un’epoca in cui le donne vengono ancora massacrate a morte per qualche vestito messo male sul corpo. E proprio il corpo è al centro di “Blonde”. Desiderato, violato, picchiato, usato, esposto. Tutti volevano un pezzo di Marilyn Monroe ma nessuno si prendeva cura di Norma Jeane.
Non è semplice raccontare le icone poiché sono figure sempre a metà tra la luce e l’ombra. Alla fine rimane negli occhi l’immagine fragile di una ragazza capace di amare la vita in maniera sconfinata, ma che un giorno smarrì la strada di casa senza mai riuscire a fare ritorno.