Barbie… e ciò che siamo diventati

Barbie… e ciò che siamo diventati

Recensione e foto di Letizia Falzone

“Fin dalla notte dei tempi sono esistite le bambole, erano sempre bambolotti con i quali le bambine giocavano a fare le madri, poi è arrivata lei, Barbie.”

Inizia così il film. Mentre la voce fuori campo racconta l’avvento della bambola più cool del pianeta, una meravigliosa Margot Robbie vestita in costume da bagno e occhiali da sole giganteggia sullo schermo.

Le Barbie vivono. Parallelamente al mondo reale esiste infatti un’utopia rosa shocking di nome BarbieLand, in cui a ogni bambola della nostra realtà corrisponde una Barbie in carne e ossa. Loro, sempre felici e inconsapevoli, si godono un’esistenza perfetta, dove ogni giorno è il giorno più bello. Sembra di entrare proprio nel mondo di Barbie, nella sua casa di plastica, con i suoi oggetti e gli abiti glam, dove il rosa ed ogni sua sfumatura campeggia su Barbieland. Qui vivono tante Barbie e tanti Ken, tra cui il biondo Ryan Gosling, che esiste solo in funzione dello sguardo di lei.

Il sorriso, la leggerezza e la spensieratezza coabitano in questo “luogo giocattolo”, finché quella che sembra la più stereotipata del gruppo non semina il panico manifestando dal nulla intrusivi pensieri di morte e i suoi piedi diventano piatti.

Che cosa sta succedendo? Per scoprirlo Barbie Stereotipo deve confrontarsi con la bambina che giocava con lei nel mondo reale. Determinata a ritornare all’innocenza perduta, Barbie affronterà insieme a Ken un inedito e avventuroso viaggio nel mondo reale alla ricerca della bambina i cui pensieri tristi hanno incrinato la paradisiaca spensieratezza di BarbieLand.

Barbie e Ken attraversano un portale che li conduce nel mondo degli umani. Qui si confrontano con una realtà completamente diversa dalla loro. Le donne non sono il punto di riferimento assoluto come accade a Barbieland: Ken scopre infatti che vige il cosiddetto patriarcato, mentre Barbie scopre dei sentimenti mai provati prima, come la tristezza. Qui incontrerà un’alleata in Gloria, ma anche un’inaspettata ‘distopia’ fatta di molestie, depressione, insicurezza e maschilismo. Tutto quel che metterà in crisi Barbie galvanizzerà invece Ken. Tra un balletto e l’altro, momenti di musical, battute divertenti, i due vanno alla ricerca di sé stessi.

Ken ritorna a Barbieland per trasformarla in Kenland, sulla falsa riga del mondo degli uomini, mentre Barbie cerca di ripristinare il suo mondo e riordinare le sue idee: qualcosa è scattato in lei dopo aver conosciuto la sua creatrice e chi giocava con lei da bambina. Forse quei piedi che non stanno più sulle punte non sono così male e quelle gocce che scendono ogni tanto dagli occhi, seppur sintomo di dolore, fanno sentire vitali perché nella vita vera si soffre e si ride.

Questo film si apre a tante cose, perché riesce a essere fedele a chi la Barbie la ama, difendendone la bontà dietro all’idea di chi l’ha ideata; e riesce a essere vicino a chi la bambola la odia, condannando il sessismo e le moderne forme di patriarcato, ma anche ogni tipo di società utopica che accetta le disparità tra generi. La riflessione più importante è quella sulle Barbie come giocattolo; sul loro merito di lasciar intravedere le potenzialità di un futuro da astronauta, da mamma, da esploratrice o da impiegata e sulla colpa di inculcare l’insicurezza davanti all’irraggiungibilità di modelli irrealistici di bellezza e perfezione.

Barbie può essere tutto: un’astronauta, una pilota di aereo, una chirurga, la presidente degli Stati Uniti d’America, un’operaia edile e persino una sirena. Il limite di Barbie, forse, è proprio il fatto che possa essere tutto e il contrario di tutto, contemporaneamente: uno stereotipo plasmato dallo sguardo maschile e una figura che rappresenta in maniera emblematica indipendenza ed emancipazione; il simbolo del consumismo più sfrenato, con i suoi accessori infiniti e le innumerevoli varianti, e qualcosa che già di per sé stimola l’immaginazione; un pezzo di plastica che ci fa pensare a tutto quello che non va nella nostra società e un caro ricordo della nostra infanzia da conservare in una vecchia scatola che non apriamo da anni, ma la cui stessa esistenza è motivo di felicità.

Sogno o merce? Il giocattolo più amato o il più odiato? Barbie è un paradosso e dunque il lungometraggio ispirato alla bambola ideata da Ruth Handler e commercializzata dalla Mattel a partire dal 1959, che da sessantaquattro anni rappresenta nel bene e nel male la cultura occidentale, non poteva non essere paradossale, contraddittorio e pervaso da una costante tensione tra la volontà di celebrare un’icona e il desiderio di demolirla e ricostruirla per farla somigliare un po’ di più a una donna reale. Non un problema da poco, perché le icone, per loro stessa definizione, sono immagini statiche e immutabili, mentre il cambiamento è instabile, vorticoso e furioso.

Il film di Greta Gerwig convince con un mix di ironia e femminismo, senza nascondere il suo lato intelligente e profondo, cercando di parlare a tutti. Barbie è un film che ha due anime: una frivola, profondamente non-sense, che è perfetta, perché riesce a non prendersi sul serio con grande intelligenza, prendendosi in giro da sola e mettendo al proprio centro una sagace auto-rappresentazione dello spirito corporativo di un’azienda come Mattel, che diventa grottesca e stereotipata.

Ma c’è anche un’altra anima: è una pellicola femminista che sa esserlo senza diventare pretestuosa. Incarnando ciò che è sempre stata Barbie: un giocattolo che, tra vizi e frivolezze, riflette tutto ciò che vogliamo essere.

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