Banana Yoshimoto. Il dolce domani e la “vita ritrovata”
Recensione di Letizia Falzone
Cercare sempre una luce, una via d’uscita. Immaginare un universo nel quale chiunque si possa rifugiare e sfuggire alle angosce. Uno scrittore deve offrire speranza a tutti, qualsiasi siano le circostanze. Tutto ciò è ben radicato nella penna e nei libri di Banana Yoshimoto dove la felicità non si vede ma si percepisce. È una felicità diffusa che acquista una grazia particolare e realistica proprio perché purificata dal dolore. I personaggi della scrittrice giapponese piangono, muoiono, risorgono, hanno tentazioni suicide, si deprimono senza pudore alcuno. È questa naturalezza che da sempre innaffia il suo folto bosco di lettrici e lettori di tutto il mondo.
Yoshimoto Mahoko, conosciuta da tutti con il nome di Banana, è una scrittrice che si è sempre dimostrata essere al di fuori degli schemi convenzionali, con opere a metà tra il realismo moderno e le forti tradizioni giapponesi. Il suo pseudonimo, Banana, non è stato scelto come omaggio all’Italia ma perché è un nome che la scrittrice giudica “carino” e “volutamente androgino”.
Nel 1987, mentre lavora come cameriera in un golf-club, Banana comincia la sua carriera di scrittrice. Il suo primo libro, “Kitchen”, ebbe un successo immediato con oltre 60 ristampe nel solo Giappone. I suoi romanzi hanno sempre riferimenti all’ideologia tradizionale giapponese e contengono riflessioni sulla vita, la morte, l’amicizia, l’amore e la ragione, temi molto cari alla scrittrice, a cui piace farli percepire tra i limiti nelle sue opere.
Ed è proprio uno di questi temi, il protagonista de “Il dolce domani”.
Il libro inizia subito collocando il lettore al centro di una scena di dolore, ci porta lì, a guardare in faccia i protagonisti mentre, dall’autoradio alle nostre orecchie, giunge la splendida voce di Leonard Cohen mentre canta “Lover, lover, lover”. Due giovani fidanzati, felici e innamorati, siedono in macchina uno di fianco all’altra di ritorno dalle terme. Ridono, si amano, si completano, vivono entrambi una vita in più oltre la propria. Cantano e all’improvviso cala il buio: Yoichi e Sayoko hanno un incidente, lui muore e lei resta gravemente ferita.
Una voragine si apre nel cuore di Sayoko e sanguinanti sono le ferite del suo spirito. Lancinante è il dolore del corpo, un bastone di ferro conficcato nella pancia, una preghiera: “fa che Yoichi viva”. Una speranza, cioè, che l’ultimo soffio di vita vada a lui perché gli occhi della donna hanno visto, hanno assaporato paesaggi stupendi e una miriade di istanti, perché lei ha avuto un tetto sotto cui dormire, due bravi e premurosi genitori, tanti sorrisi, un corpo sano e forte. Il sogno, il nonno e le sue parole. La consapevolezza di essere lei, Sayoko, la sopravvissuta. Perché Yoichi è morto sul colpo con le parole dolci e a voce bassa cantate dall’amato Leonard Cohen.
All’epoca la protagonista aveva ventotto anni e ancora credeva che la vita potesse durare in eterno, che l’amore e la possibilità di realizzare i propri desideri fossero una verità improcrastinabile. Aveva da tempo una relazione a distanza con l’uomo, lui residente a Kyoto e lei a Tokyo. Una relazione, la loro, anche per ragioni lavorative, non ben vista dai genitori di lei che confidavano in quella distanza quale possibilità di una separazione. E la separazione è avvenuta, ma per altro motivo. Le loro vite si sono spezzate, si sono divise inesorabilmente e mai potranno riunirsi. Sayoko non mancherà mai di risentire nella sua pancia la sensazione di quel ferro arrugginito, non potrà mai dimenticare quelle sensazioni. Anche se il dopo lo ha vissuto come se si trovasse in una bolla di sapone. La perdita del suo Mabui, la ricerca. Ma cosa ne è di chi resta?
Banana Yoshimoto punta il fascio di luce su un argomento talmente fragile da far tremare le dita nello sfioro: la morte; ma non solo, le si affianca, in modo prepotente, l’altro argomento non meno fragile: la vita.
Cosa significa rimanere da questa parte? Cosa significa viaggiare al di là del comprensibile? Cosa si prova ad azzerare i confini spazio temporali oppure, al contrario, sentirli talmente premere sulla pelle da andare in mancanza d’aria?
“Il dolce domani” è un romanzo breve nel quale Banana Yoshimoto ripercorre le tappe dolorose della rinascita dopo la terribile tragedia della perdita. Soltanto attraverso un percorso articolato e complesso, malinconico e nostalgico, che passa dall’accettazione della sofferenza alla consapevolezza di essere vivi, fino alla ricerca del proprio mabui, quel sé intimo e personale, Sayoko si pone alla ricerca della propria posizione nel mondo: continuare a vivere dopo aver perso la persona amata è la difficile ma ineluttabile condizione che si pone dinanzi.
Non senza difficoltà affronta le proprie ombre, ma niente deve andare perduto. Ogni gesto, azione e sentimento sono indispensabili per la ricostruzione della sua esistenza. La vita pulsa e anche i traumi e le paure sono attori nella grande commedia umana. Ma scegliere di proseguire è la via.
Nel ricordo della sua vita precedente, un’esperienza emotiva e sensoriale la attende. Durante questa, lei dovrà imparare a sopravvivere, a vivere di nuovo e a ricostruirsi.
Il dolore e la rinascita di chi è sopravvissuto alla morte di una persona che si amava saranno il cuore del racconto e il viaggio interiore della protagonista alla ricerca del mabui. A Sayoko è caduto il mabui, l’anima, e Shingaki le spiega che a Okinawa si dice che “se ti cade il mabui devi tornare a raccoglierlo nel punto in cui è caduto“.
Un bicchiere di vino.
Due.
Tre.
Forse non bastano.
Forse sì, momentaneamente.
Forse è giusto concedersi del tempo.
Sayoko ritorna a Kyoto, la città con i suoi paesaggi, la città vecchia oltre il fiume, il verde della vegetazione e le strade dorate, lo sfondo alla loro storia d’amore. Sente che è viva e che deve vivere. Sente che è la vita a incitarla, perché l’esistenza scorre, si muove, e non c’è soluzione alla morte dei propri cari.
Il dolce domani è un romanzo che desta profonda emozione sulla filosofia del dolore della morte che ci rende fragili e su come si possa sopravvivere a una così grande sofferenza. Banana Yoshimoto usa un linguaggio delicato e profondo per narrare una storia unica che diventa universale, un personaggio femminile che dimostra umanità e resilienza.
Frasi semplici, belle a prescindere, musicalmente perfette, collocate in un contesto specifico, ben narrato dall’autrice. Con tatto, sensibilità e delicatezza la Yoshimoto pone l’accento su temi quali la sofferenza, la solitudine, la fragilità, lo smarrimento, la morte, ma anche sulla memoria, sul coraggio e sul ricominciare. Solo dopo aver pianto i propri cari, si può avere la forza per portarsi avanti, ci ricorda la scrittrice. Se i ricordi e il passato infondono fiducia e forza, il dolore può tramutarsi in salvezza e in una maggiore conoscenza e coscienza di sé stessi.
Questo romanzo mi ha commossa fin dalle prime pagine, ma a differenza di altri non mi ha lasciato nessun senso di angoscia ma solo di speranza. Il percorso che compie Sayoko alla ricerca della sua anima perduta è una ricerca triste, certo, ma priva di disperazione. La nostalgia del passato e la malinconia dell’amore perduto sono presenti per tutto il romanzo, ma la voglia di andare avanti e di riscattarsi è forte.
Banana ci ricorda quanto può essere flebile la vita, quanto non possa essere altro che un alito, un soffio di vento ma anche quanto sia importante viverla. Viverla in ogni secondo, in ogni anfratto, in ogni piccolezza, in ogni alto e basso. Alla ricerca del proprio Mabui perduto, alla ricerca del proprio posto nel mondo.