Autocritica di una generazione allegra
Articolo e foto di Martino Ciano
I tempi migliori verranno. Con questo motto sono state tirate su due generazioni, ossia la mia e quella successiva, cioè quella degli anni Ottana e degli anni Novanta del secolo scorso. Con la fiducia nel futuro sono state anche fregate, cosicché “l’oggi” si è trasformato in attesa, mentre “il domani” in sogno. E della necessità del fallire, dell’imparare, del curare, del seminare e del ribellarsi nel presente mai si è discusso.
Ne abbiamo parlato io e un amico davanti a un caffè, assumendo le nostre sembianze borghesi, perché vogliamo essere tutti borghesi e dimenticare qualsiasi origine operaia. Proletari non possiamo più considerarci, visto che dagli anni Settanta del Novecento figli se ne sono fatti pochi. I proletari si sono estinti, almeno dal punto di vista carnale. Ormai abbiamo sovraprodotto speranze, ma queste non hanno gambe, non hanno corpo e tantomeno avranno una coscienza.
A quarant’anni ti aspetti di essere un esemplare del ceto medio, ed effettivamente lo sei, ma rientri tra quelli che a fine mese non ci arrivano. I più fortunati, invece, possono permettersi un leggero surplus, ma solo a rate. Questa sparuta minoranza, che a quanto pare è sempre più numerosa delle minoranze come venivano intese negli anni scorsi, di pagamenti dilazionati nel lungo periodo se ne sono messi parecchi sulle spalle.
Mentre prendiamo il nostro caffè con atteggiamento borghese, sospinti dall’idea di aver capito tutto, cioè niente, ci ricordiamo anche della storia di una quarantatreenne nostra amica che ha firmato il suo primo contratto di lavoro, con tanto di tutele e contributi previdenziali. Ci accendiamo una sigaretta, anche questa è demodé, lo sanno infatti persino i moscerini che ci girano intorno che fumare è letale, ma fa parte del gioco, d’altronde di qualcosa bisognerà ammalarsi e, per fortuna, anche morire. Ci chiediamo se non siamo gli ultimi sfigati di una classe di cazzoni che non si sono voluti sporcare le mani.
Sporcarsi con cosa? Le risposte sono tante. Avremmo potuto tentare di governare un paese, mandandolo in rovina con il nostro fare borghese; avremmo potuto distruggerlo e ricostruirlo, grazie alle nostre ampie vedute, anche queste borghesi; avremmo potuto rivalutare la coscienza attiva dei nostri nonni, invece abbiamo preferito prendercela con i genitori. “Loro si sono mangiati tutto – dice il mio amico – e oggi si sciacquano la bocca con gli ideali e con i bei tempi andati”.
Il mio amico è però un uomo intellettualmente onesto, infatti mi racconta che spesso chiama suo padre “accattone” perché è un baby pensionato, uno di quelli che a cinquant’anni si è tolto dal “mondo del lavoro” per fare “il complottista e l’anticonformista con una bella pensione che ogni mese lo Stato gli paga”. L’amico mio dice anche che il suo “fare borghese”, ossia l’incapacità di adattarsi alle circostanze e la convinzione che essere un laureato sia anche sinonimo di “testa pensante aristocraticamente corretta”, glielo ha trasmesso il padre. Pertanto, a conti fatti, nel sangue del mio amico circola la frustrazione del “baby pensionato che mai sarà”.
Insomma, l’amico mio prova invidia verso suo padre; quindi, con fare borghese, rispondo a lui che “il prossimo passo sarà diventare ambientalista, ma restando sempre lontano dalla zappa e dallo sterco”. Intanto, con “fare borghese” chiudo i conti con questo spaccato di “reale fallimento”, con la speranza che una nuova generazione di rivoluzionari spazzi via il nostro atteggiamento.