Assenze di una vita che non c’è
Racconto e foto di Adriana Sabato
Da tempo si era rotto qualcosa dentro di sé. Così, all’improvviso. Come d’incanto, senza preavvisi, senza segnali. Sentiva vuoto, vuoto intorno e dentro. Niente aveva senso e, pensando fosse cosa passeggera, non diede molto peso. Invece il vuoto l’assaliva ogni giorno di più, la rendeva sempre più sensibile a tutto ciò che accadeva – bello o brutto che fosse – e la paura prese il sopravvento in un crescendo incontrollabile e con un’alternanza fra stati d’animo così diversi fra loro, cangianti, da non riuscire neanche a classificarli.
Non riusciva a svolgere le normali attività quotidiane, a stento riusciva ad alzarsi dal letto al mattino ma, una volta in piedi, i suoi pensieri ed anche il suo corpo barcollavano! Cosa mi sta succedendo? Questa la domanda costante. Forse l’età che avanza, forse i pensieri che vanno avanti e indietro, diventando chiodo fisso alcuni e pensieri più lievi altri. I tasti del suo computer erano all’improvviso divenuti pesanti come fossero di piombo, sembrava avvertissero queste strane sensazioni, perché a volte sbagliava a scrivere le parole e sembrava che il pc volesse dire la sua!
Osservava tutto e tutti nei minimi dettagli. Classificava, a volte giudicava e riusciva a giudicare anche solo dagli sguardi le sofferenze e il dolore, il dolore infinito che attraversava e trafiggeva come una lama, le vite altrui… ed anche la sua. Faceva paragoni fra la sua di vita e quella degli altri; si consolava, a volte, pensando che forse quel dolore aveva un senso e che certamente qualcuno stesse peggio di lei. Ma c’è sempre quella maschera sul viso di ognuno di noi che si nutre di modi di dire e di luoghi comuni, quel velo che non sai mai cosa possa celare. La felicità? L’insoddisfazione? La stupidità?
Ah, come sarebbe più semplice essere stupidi, pensava… o forse dietro ad una bella, sciocca risata ci potrebbe essere una vita meno difficile, chissà. Ci sono però anche maschere di tristezza e sguardi persi nel vuoto: l’umana comprensione scavalca tutti i limiti, a volte, andandosi a perdere in facili dicerie e frasi fatte. Facile giudicare, comodo: più che offrire se ancora esiste, la giusta pietas del caso. Eh, troppo facile!
Per lei la giusta pietas non era mai esistita. Lei era stata solo uno strumento offerto per di più nelle mani sbagliate che volevano solo patteggiarne l’esatto prezzo e il preciso valore. Merce di scambio in una società che imprigiona l’essere umano in una continua, orrenda progressione, dietro le sbarre della schiavitù della dipendenza dal danaro! Il danaro, il nuovo dio che ci ha privato per sempre del libero arbitrio attraverso un’altra delle sue dipendenze: il lavoro disumano, il continuo produrre senza un attimo di tregua, un veleno ormai circolante nelle vene di ognuno.
Quel giorno lei doveva partire. Prendere il treno risultò essere una fatica immane ma, appena salita sulla carrozza dove aveva il posto prenotato, sentì un alito di vita risvegliare la sua mente intorpidita. Prendeva dei farmaci ma non risolvevano appieno le sue aspettative…aspettative di cosa? Di un eterno torpore? Mah! Ci voleva una sferzata di energia, ci voleva. Sarebbe stata la cura migliore! (Mens sana in corpore sano: saranno vere le parole di Giovenale? Cominciava a dubitarne!)
Uno splendido sole le accarezzò il viso e i capelli; un lieto presagio accompagnò quel momento. Fu solo un attimo però: intanto l’angoscia riappariva, era dietro di lei, la guardava, l’attendeva ancora ai limiti di una strada senza senso…