Mi raccontò la sua dipendenza

Mi raccontò la sua dipendenza

“Mi raccontò la sua dipendenza” è un articolo di Martino Ciano. In copertina una foto scattata e rielaborata dall’autore con l’Intelligenza Artificiale

La droga me l’ha raccontata a modo suo, come l’aveva vissuta, vagando con gli occhi e gettandoli tra i ricordi come un bimbo che gusta le caramelle con lo sguardo. Aveva la gioia tra i denti: battevano e stridevano. Si grattava le braccia fino a consumarsi la pelle, e sudava e piangeva e rideva e cantava. Chi canta ha una ragione per non morire, persino per sperare, addirittura per farsi rosa tra i rovi. Diceva che per bucarsi ci voleva coraggio, fottersi una vena per amarsi un po’ di più, altro che cortesia che ti fai, a mala pena te ne accorgi del tuo narcisismo patologico. Sfregava la testa contro il muro, come la capocchia di un fiammifero che non si accende; voleva darsi fuoco in ogni parte, liquefarsi le ossa. Morire in astinenza? In fondo è figura retorica pure il dolore, puoi dirne in diversi modi ma non sai perché a uno basta piangere mentre per un altro ci vogliono spilli e aghi. Mi raccontò dell’amico che scomparve il giorno del suo compleanno. Avvenne nell’anno della caduta delle Torri Gemelle. Lasciò un biglietto con su scritto “questo è il migliore dei miei mercoledì”; quel giorno infatti era un mercoledì e altri per lui non ce ne furono.

Mi raccontò anche…

Sognare un bambino che ti grida contro “sono arrabbiato con te”, mentre ti porge una corona di alloro con foglie nere che si agitano come serpi. Vedi, mi chiama la fanciullezza; vorrei riprendermi la bontà, l’ingenuità, la spensieratezza che si dissolve durante la crescita. Ora è un tramontar-tradendomi, un macellare le membra e un infilzarsi il cuore. Canta una civetta alle undici di sera, si mischia il rigurgito del mare a una risata, io passo una sola volta come un giorno d’adolescenza. Un amico mi avrebbe detto qualcosa, anche di circostanza, magari sfacciatamente buonista, ma pur sempre delle parole avrebbe proferito; magari me le avrebbe sputate in un orecchio. Qui ora c’è solo un ronzio, sembra un rantolo di fine agonia. Credimi non ci vuole nulla a parlare di morte, invece io voglio vivere e voglio rifare l’amore con la vita.

Mi è rimasta un’illusione anni Novanta

Era possibile un mondo migliore simile a quello dell’oratorio di una chiesa. Ma eravamo bambini cresciuti male; viziati, troppo legati al seno delle nostre madri avvizzite e alla virilità dei padri ormai imbronciati con la vita. È scorso troppo latte nelle nostre bocche e troppo ne è uscito durante erezioni noiose. Credimi, tutte le gonne erano per noi capanne, ogni buco era qualcosa in cui iniettare gioia, fin quando non ci sono più bastati né i sogni, né i desideri, né le possibilità. Un fiume ci ha portato via. Non siamo annegati, siamo svenuti e ancora dobbiamo cacciare l’acqua dai polmoni. Ecco, aiutami a respirare.

Conclusioni necessarie

Questo era un mio amico; questa era la sua voce. Ha lottato per non sentirsi stupido e per non farsi dire che in fondo lo era. Voleva stupirmi ancora un po’ con un racconto isterico, voleva che gli dicessi quanto fosse capace a ricordare vita, morte e miracoli di ogni evento. “Io passo come un giorno d’adolescenza”, questa frase la ricordo ancora e la conservo tra le memorie del cuore. Fino a sedici anni abbiamo giocato a nascondino vicino ai sottopassi della superstrada, poi lui non ha trovato più nessuno. “Tana libera tutti”, ma lui non si è mai più liberato.

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