Nella lotta tra Stato e Messina Denaro chi ha vinto?

Nella lotta tra Stato e Messina Denaro chi ha vinto?

Articolo di Domenico Benedetto D’Agostino

È una fortuna che anche i vecchi pezzi di merda si ammalino di cancro. Voglio dire, le sopportazioni morali del nostro vivere contemporaneo sono comunque rare e difficili, ma siamo sicuri che se a esse dovesse aggiungersi la beffa di un cancro che non colpisse i bastardi non vivremmo ancora peggio? Quale che sia la risposta, se è vero che può essere sufficiente una visita in una qualsiasi “oncologia pediatrica” (le virgolette sono illusorie) per prendere le parti di Ivan Karamazov sulla disistima totale di Dio, o peggio della sua forza e della sua utilità, è una fortuna che, almeno, anche il diavolo in persona possa ammalarsi di cancro.

Una fortuna del tutto gratuita, chiaramente, autoreferenziale, nel senso da riferirla al cancro direttamente, che smonta persino il nostro inossidabile senso di fiducia (!) verso lo Stato e le istituzioni tutte, che masturba lascivamente, da sotto la scrivania, fior fiori di titolisti, social media manager, memers e satiri più o meno involontari; che riesce, infine, tra le mille verità dilaganti, come al solito, a fornire anche a me una inedita rivelazione: nella lotta tra lo Stato e Matteo Messina Denaro ha vinto il cancro.

Nella infinitamente più modesta lotta tra il sottoscritto e gli Enrico Mentana, gli Open, i Fatti Quotidiani, e compagnia, invece, mi vedo costretto a sventolare in lacrime bandiera bianca. Non sono passate che ventiquattro ore dalla presunta notizia dell’anno, l’arresto dell’ultimo dei corleonesi, uno che non ha scheletri nell’armadio solo perché l’acido non lascia traccia nemmeno delle strutture ossee. Un arresto, a dir la verità, de-canonizzato nelle sue componenti performative, a partire dall’assenza delle manette. Poi, pare, nessun vero tentativo di fuga. È stata chiesta al diavolo una conferma della sua identità, e il diavolo, contrariamente alle sue classiche costumanze, ha concesso semplice ammissione. Il diavolo ha smesso di mentire. Che sia anche questo un miracolo del cancro?

Ma, dicevo… non sono passate che ventiquattro ore e, com’era chiaro, i post, gli articoli e le foto si sprecano. Mentana, per esempio (ma vale per tutti), trova utile (per le entrate pubblicitarie del suo giornale, si intende) informare a più riprese quanto il diavolo sia stato incastrato dalla sua passione per il lusso, ossia il Frank Muller da trentaseimila euro e il montone da non-so-quanto, oltre che per la stessa malattia. Il titolo è un capolavoro: “Il montone griffato, l’orologio da 36 mila euro, il tumore”. Segue un sottotitolo: “… Le due operazioni e i 22 cicli di chemioterapia” e un corpo che stuzzica il solito italico voyeurismo, reso possibile dalle testimonianze di altri pazienti della clinica, cioè di altre persone costrette alla pazienza dal cancro, quando non alla terribile pazienza del cancro, prima che alla vomitevole vicinanza con il diavolo.

È chiarificatore, un pezzo del genere: dovrebbe renderci più limpida quella fortuna sfacciata di cui dicevo all’inizio, quella livella che dovrebbe continuare a spettare solo alla morte, pure se continua a voler cadere nelle mani della malattia. In realtà, l’unica cosa che mi chiariscono Mentana e tutti i suoi colleghi è che Messina Denaro, in parte anche a spese nostre, andrà presto all’inferno. E, quel che è peggio, che potrebbe pure piacergli.

Ma queste sono frattaglie da giornali. Di converso, e molto più incisiva, c’è invece la turbo-riproposizione ormai immediata (anticipa persino le cronache) dei fatti da parte della comunità “memetica”, quella massa, cioè, sempre più decisiva nella interpretazione della realtà. Non la troppo facilona “bolla social”, ma il suo contenuto effettivo, la sua sostanza. Qualcosa che ormai ci appartiene senza averne fatto richiesta, una vera massa, per dirla alla Canetti, “violenta”, che più assume consistenza più diventa attrattiva. In sintesi, i meme, le vignette, le battute sarcastiche, fredde, scomode, “black”, non sono più il corredo delle notizie, ma è quasi vero il contrario.

Quanto questi due mondi siano complementari sarebbe, poi, un argomento interessante e sterminato. La comunità “memetica” da un lato e quella giornalistica, infatti, non fanno che elaborare le stesse informazioni, differenziandosi solo nelle modalità di azione e nei registri linguistici adottati. Tuttavia, il dubbio che con il passare del tempo queste due infosfere tendano sempre più ad avvicinarsi è più che lecito. E non mi riferisco alla semplice constatazione che gli stessi meme diventano “finalmente” oggetto di articolo (“Matteo Messina Denaro, ecco i meme più esilaranti”, tgcom24) dopo che per anni è avvenuto (e avviene continuamente) il processo opposto. Penso, piuttosto, che questo amalgama avvenga per diversi motivi. Quello più evidente, mi pare, è l’abbandono più o meno consapevole della riflessione lenta, e il trionfo, di converso, dell’istinto. L’istinto è sempre più cliccato, più “condivisibile”, più monetizzabile o, semplicemente, più ridicolo. L’istinto è diventato un sentimento, il principale di quell’homo currens di cui scriveva Franco Cassano già a metà degli anni Novanta.

Così, anche l’evento in sé, la cattura del superlatitante, perde quella forza sacrale che avrebbe avuto non più di quindici anni fa. Generazioni che di Totò Riina avranno visto appena l’anonima faccia nei giorni della sua morte, un lustro fa, ci trasmettono coattamente nuove strategie di rimodulazione della realtà, riuscendo a farci ridere, perché la brutta faccia di Messina Denaro ricorda quella di qualcun altro, perché le “modalità” dell’operazione lascerebbero a desiderare, perché anche questa scena è stata magari predetta dai Simpson, e così via. È un fenomeno ancora troppo recente, e quindi scarso di studi affidabili, per essere compreso fino in fondo. Nel frattempo, non ci restano che la più o meno lucida osservazione e l’accettazione di uno svuotamento interiore, simile a certe opere d’arte di cui si fa fatica a trovare il significato (se almeno un significato lo nascondono). Scrivere recensioni ironiche sulle schede informative della clinica privata che ha curato Messina Denaro, per esempio, sfugge al ventaglio dei miei significati, ma è possibile che ad altri risulti una operazione assolutamente pregnante nella sua ironia e nel suo sorriso, come è possibile, effettivamente, che la breve soddisfazione di un orgasmo non lasci comunque scampo ad almeno un attimo di vacuità post-coitale.

Nel mezzo, come sempre, stanno gli interventi più equilibrati: quelli, per esempio, che la battuta sulla sanità siciliana (e in realtà di tutto il Meridione) se la sono vista servire su un piatto di argento, oppure, dal lato pseudo-giornalistico, chi ha trovato il tempo – tra l’abbigliamento del diavolo, la sua verve “femminiera”, i singoli peli trovati in tutti i covi segretissimi fino a ieri – di ricordare che l’Operazione dei Ros è stata chiamata “Tramonto” in onore della poesia di Nadia Nencioni, bimba uccisa a soli nove anni (con il resto della famiglia), nel 1993, da un autobomba in Via dei Georgofili a Firenze.

E qui sì che possiamo concederci, anche per un solo minuto, una disconnessione totale, un respiro più lungo degli altri, un silenzio, una pausa dalle chiacchiere di tutti i tipi, comprese le mie. Persino la compagna più oscura, la depressione, sembra schiarirsi un poco. Questa sottospecie di nebbia di seconda mano, che ha cominciato a soffiarmi addosso dal primo giorno passato con mia madre in una sala di chemioterapia, finirà prima o poi. In un modo o nell’altro.

“Il tramonto: Il pomeriggio / se ne va. / Il tramonto si avvicina, / un momento stupendo, / il sole sta andando via (a letto) / è già sera tutto è finito” (Nadia Nencioni)

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