L’arcobaleno e il serpente
Racconto di Antonello Cristiano. Foto in copertina di Martino Ciano
Dall’ombra bassa della veranda, gli occhietti cisposi di sua zia non gli davano tregua. Li sentiva sulla pelle più acuti di tutta l’artiglieria fluviale, tra il raggio obliquo, le zanzare e le spine del solano.
Quello sguardo famigliare e paranoico accampava pretese assurde sulla vita di un settenne come lui, vocato all’equatorialità, sempre in declino sulle acque limacciose del fiume, a tredici passi precisi dal suo asilo, uno che sognava alligatori a fauci spalancate e scimmie in bilico… Quello sguardo come una calamita avrebbe potuto per assurdo dominare le immense tenaglie della malaria che stringevano con fuoco e sudore a partire da occidente, ma non il pizzico ferruginoso dell’estro selvatico da cui Nino era stato già tetanizzato.
Suo padre era ricercatore a San Paulo, e da quando possedeva memoria conduceva la sua piccola vita sotto la sobrietà del liscio banano. Mamma e malaria erano per lui la stessa parola, giacché dal giorno in cui la donna che l’aveva messo al mondo fu resa scheletro da un vortice di febbri, le due parole avevano il potere di confermarsi o di annientarsi a vicenda.
Pressoché in perfetta solitudine, la sua biografia poteva riassumersi in un allontanarsi graduale e concentrico dal corbello in cui giaceva tra una poppata ed una meccanica ripulita al sedere.
Nessuna premura di genitore o di amico gli aveva passato affannosamente l’ingiallito testimone del timore per le varie bestiole amazzoniche, così afferrava nella viva mano gechi pustolosi e tarantole golia, mentre le raganelle verde acido le avrebbe ciucciate come sorbetti, e le scolopendre giganti erano così buffe con quel muovere affannoso di zampette che avrebbe voluto accoglierle nel suo lettino, ma chissà che solletico gli avrebbero fatto, lui che ne soffriva così tanto!
Provava invece un orrore soprannaturale per le sabbie mobili, argomento le cui uniche delucidazioni aveva ricevuto dal cugino, maggiore di lui di tre anni.
“Stai bene attento a dove vedi bulicare. Due, tre bolle che affiorano facendo blu blu ti avvisano che non devi andare oltre. Attento alla terra colore del piombo. Quando inizia a succhiarti quasi non ti accorgi. Ti senti lievemente ubriaco, poi inizi a decrescere. Credimi amico mio, sotto la pianta del piede affondando lentamente incominciavo a sentire scricchiolare chissà cosa, ossicini, gusci di noci, mentre la faccia sollevata diveniva una maschera galleggiante in mezzo alla pozza, un macabro nenufaro. Allora senti le braccia dei morti che tirano. È come nascere, ma a rovescio.”
Gli domandò come fosse uscito vivo da quella trappola mortale. “Presto detto: camminando all’indietro come i gamberi. È vero, è come salire a ritroso tre o quattro gradini, l’ultimo ti riporta felicemente sulla sponda”.
In un mattino di topazi esplosi, dopo una interminabile pioggia notturna, scese come al solito sull’argine, facendo largo al suo stupore in una insenatura tutta dorata, che solo il giorno prima non esisteva. Nino pensò che mano d’uomo vi avesse scavato una splendida attesa, ma invece in quel luogo non si era accanita che la lunga acqua notturna.
Al centro dell’insenatura, nell’eccesso di luce, iniziò a scandirsi qualcosa come un immenso tronco palpitante, un’anaconda dal muso profilato come quello di un’accetta. Ne percorse con gli occhi il filo del dorso per ben tre volte prima di avvicinarsi alla creatura.
Era stupefacente. Le squame della sua spessa pelle assomigliavano a scaglie di pigna. Le larghe chiazze che la maculavano erano come toppe di scura canapa intessuta. Pareva pieno di ricettacoli ma non ospitava nessun parassita. Liscio e puro, per niente viscido come decantavano. Anzi: torrido. Il contrario speculare del fiume limaccioso.
Gli occhi di Nino cominciavano a bruciare e per placarli li posò un istante sull’arcobaleno del versante opposto, che un piede nell’ombra l’altro nella luce faceva pesare il mostruoso ponteggio delle sue anche sul verde folto della foresta rumorosa.
Ma nel mattino tropicale, dalle libellule alle dinizie, e poi nella sera, dalle zanzare alle stelle, non c’è nulla nella jungla che non sia mostruoso.
Nino cercò il centro esatto dell’anaconda, la parte più voluminosa del tronco, soltanto per potervici sedere a cavalcioni ed ammirare i moti ondosi delle spire volteggiare attorno a lui. Non faticò per nulla a farsi posto, ma dalla sua giostra inerte spinse di nuovo l’occhio sull’arcobaleno, titanica ruota, che sembrava avviarsi in riflessi metamorfici affondando in una lontanissima estremità della terra per riaffiorare, dopo aver assaggiato le viscere della terra, di nuovo sul lato opposto in un ciclo perenne, quasi stridendo e sprizzando scintille di piume dai colori folgoranti. Poi tornò al serpente che sotto di lui pareva invece morto. Avrebbe voluto spronarlo, e così fece, grattando colla fibbia del suo sandalo il vasto fianco squamoso. Ciò che accadde fu una specie di accensione: prima un crollo leggero, poi un risucchio frusciante di spire che pareva volessero evolversi nel loro segno definitivo, là in cielo, ma non riuscivano a comporre che tanti piccoli semicerchi sempre cangianti, un inutile discorso fatto di sole virgole.
Quella notte sognò che il serpente poteva parlare. Gli raccontò di sua madre e del fiume che egli aveva ingoiato. Infatti si vide il letto arenoso dove prima rotolavano le acque. Adesso era cosparso dappertutto di strani ossicini bianchissimi. Disse a Nino di accostarsi ancora un poco, e gli mostrò sul suo corpo delle piccole creature sublunari. Sollevavano le squame per spiarlo, e, subito dopo, spaventate, riabbassarle in un lampo. Erano gli abitatori del serpente. Gli parlò di altre, di troppe cose. Ma non gli disse nulla delle braccia dei morti, né si fece guardare nelle fauci.
Al mattino seguente Nino, discendendo per prima cosa sull’argine, trovò al suo posto un contorto e levigato legno secco. L’arcobaleno si era bevuto tutto il serpente.