Aquanesci e Calisà
Racconto e foto di Giuseppe Gervasi
Anna ascoltava le parole del figlio con un disappunto appena celato da un’espressione del viso rugoso resa quasi impenetrabile. Sopra il vestito nero, come sempre, la foto del marito all’altezza del petto, stretta tra le maglie di una catenina eternamente al collo. Come ogni sera, avrebbe tolto il fazzoletto dalla testa per sciogliere i capelli lunghi, ondulati e brizzolati, solo un attimo prima di andare a letto.
“Oh, ma’. Qui non c’è niente per noi. Non c’è futuro, non c’è lavoro, non ci sono speranze. Dobbiamo partire, andare a cercare una vita nuova, lontano da qui, voglio almeno sperare in un futuro diverso”.
“Figlio mio, ti sembra facile? Pensi che sia semplice abbandonare quel poco che abbiamo e partire per una terra lontana? Come facciamo?”.
“Ma’, non abbiamo scelta. Vi prego, non mi fate pesare di più la sofferenza che mi porto dentro da troppo tempo, abbiamo diritto a una vita diversa. Sarà difficile, lo so. Soprattutto i primi tempi, ma almeno un tentativo lo dobbiamo fare. Stanno partendo tutti, questo paese si sta spopolando, non rimarrà più nessuno perché nessuno potrà sopportare un futuro fatto di miseria e stenti. Venite con me”.
“E che ti devo dire, figlio? Da quando tuo padre non c’è più ho solo te. Partiamo. E che Dio ci aiuti”.
Il lumino a olio si spense pochi secondi dopo, lasciando ai due solo il buio che, prima di prendere sonno, li avrebbe accompagnati nei propri pensieri. Cosimo non avrebbe più percorso per molto tempo quella strada di terra e ciottoli sparsi per la stretta carreggiata che dal bivio di Acquanesci conduceva a Calisà.
Non avrebbe pianto per la polvere che era costretto a respirare dietro al suo amato ciuccio, e non avrebbe mai più litigato per decidere chi sarebbe salito per primo in groppa. Non avrebbe più rivisto il verde dei prati che abbracciava l’azzurro del cielo, nelle prime ore del mattino di un’afosa giornata d’estate. Il luogo dove suo padre e sua madre avevano trascorso gran parte delle giornate, col tempo scandito dai ritmi della cultura agricola: nel mese di giugno il grano, a settembre la vendemmia e poi la raccolta delle olive.
Sotto la grande quercia si consumava il gustoso e semplice pranzo e nella vecchia dimora di pietra si veniva premiati ogni notte dal tanto atteso riposo. Le secche sterpaglie e i frutti selvatici, nell’attesa di un ritorno, avrebbero ricoperto ogni cosa e attirato l’ira del fuoco. Quante giornate trascorse nel caldo soffocante d’estate, affievolito dai piedi nudi immersi nel piccolo ruscello che costeggiava il canneto, badando bene a evitare i morsi dei granchi. E poi il freddo d’inverno, che il fuoco acceso del camino rendeva sopportabile.
L’aria piena di stelle che presto sarebbe stata oscurata dalle nubi. Questi erano i pensieri della madre che avrebbe voluto portare in Argentina quei luoghi e quelle sensazioni che mai più avrebbe rivisto e provato.