Amuleti. Lorenzo Pataro e la poesia della “materia ansimante”
Articolo di Martino Ciano
Si stringe nel suo ciclo, nell’andirivieni della vita e della morte, nella catabasi e anabasi dei significati, fin quando ogni parola trova conforto nell’ampio respiro dell’illimitato, in cui la rinascita è ovvia. Così la poesia di Lorenzo Pataro, giovane poeta calabrese di Laino Borgo, che con questa sua raccolta poetica dà prova di un’espressività pura, lontana da ogni formalismo. Qui si inventano forme, si creano voli e schianti del pensiero, si alternano le stagioni della vita, i giorni in cui si spezzano le catene dell’ignavia e si ripercorrono le strade di una purificazione terrena.
L’uomo incastonato nel suo habitat, l’uomo che riprende posto nella natura che lo circonda; nei suoi versi, Pataro si incarna in un corpo-fotosintesi, si spezza come un ramo, marcisce e rinasce dalla terra da cui tutto si eleva e a cui ogni cosa fa ritorno. E alla fine di ogni ciclo si riceve in dono un amuleto, che non è solo quell’oggetto che protegge dalle forze malefiche, ma assume anche il significato di segno distintivo che testimonia un passaggio, la fine di una tappa. C’è un sentimento dionisiaco tra questi versi, in cui l’equilibrio è nella tragedia, nel mistero della fine e dell’inizio, nella menzogna della luce e del buio. Sa di orgia dei sensi il suo poetare, perché nulla si affievolisce, ma si unisce alla melodia bucolica che nessuno riuscirà mai a zittire.
Insegnami la quiete delle gazze/di vedetta sui cipressi/e recita al contrario rovesciati/tutti i salmi che conosci/come fosse un cifrario per il volo…
Allora tu ascolta la preghiera delle foglie/ferite dall’inverno, insegnami/a chiamare per nome tutti i falchi/come fosse un rito antico per il bene…
Qui vince lo spirito romantico dell’uomo-natura, ossia il suo impeto e la sua tempesta. C’è la svolazzante timidezza dell’essere dominatore, colui il quale prova a piegare ogni cosa al suo volere, senza rendersi conto di essere Sisifo. Egli può solo fallire nel momento in cui non si riconosce nel sentimento della natura; può solo sperare di produrre gli amuleti con i quali stigmatizzare gli eventi che giudica contrari ai propri progetti; può pensare di essere avulso dal resto, senza rendersi conto che nella sua dichiarazione di indipendenza stanno il suicidio e la mancata rinascita.
Cos’è dunque la poesia di Pataro? Una presa di coscienza di chi si accorge che intorno a lui ogni cosa respira, ansima, si lamenta e allo stesso tempo si bea della cecità e dell’ignoranza umana. E in questi versi, il giovane calabrese traccia una via di fuga, ossia una parola che riconosce l’anima della materia.
Ti ho dato un nome. Come fossi/un talismano da inventare. Mi fai/il bene del concime, del lievito/e del sale per il pane. Ti ho dato/un nome. Ora intreccio le vocali/e sono l’edera a nascondere il segreto/che ho lasciato come un seme.
*Lorenzo Patato, Amuleti, Ensemble, 2022