Amina Ohbdo. Seconda Parte

Racconto a cura di Loredana Serra

Il mio sole si era spento. Mentre c’erano loro, però, avevo sentito parlare delle barche, quelle che andavano in Italia. Le donne alla sera si riunivano e ripetevano ciò che avevano sentito dagli uomini. Il passaggio per l’Italia costa più di anni di lavoro – dicevano – ma c’erano persone che accettavano il pagamento in altri modi.

Non sapevo quali modi fossero, ma decisi che volevo provare. Al villaggio non ero nessuno. Contavo molto meno di una qualsiasi delle bestie. Pensai che avrei potuto raggiungere Gracie in qualche maniera e farmi aiutare. Da giorni avevo iniziato a pensare. A pensare di poter andare via. Ho raggiunto la costa aggregandomi ad un convoglio – l’ultimo – che stava lasciando il posto nel quale ero nata. Ci misi un po’ a convincere l’autista ma alla fine andai via con lui. Nella mia stupida ingenuità di allora credevo che lo avesse fatto per bontà. Cercai una sacca che avevo tenuto dopo la partenza di Gracie. Non che avessi molto da mettere dentro ma presi un pettine che Aleke aveva detto che apparteneva a mia madre.

Era felice della mia partenza, una bocca in meno da sfamare. Convinse anche mio padre. Dopo qualche ora di viaggio l’autista si era fermato. Scese per fare pipì – mi disse – e mi chiese di farla anch’io perché il viaggio era ancora lungo. Aspettai che avesse finito e che rientrasse e solo allora uscii. Non lo sentii nemmeno arrivare. Mi gettò a terra e in un attimo mi era sopra. Ero caduta malamente su un ginocchio che mi faceva male, la bocca si era riempita di sabbia.

Entrò dentro di me e mi prese con grossi gemiti e soffi. Io – più per lo stupore che per quello che mi stava facendo – non dissi nulla. Non ricordo di aver pianto o gridato. Mi fece bere dell’acqua alla fine. Risalì dicendomi che così avevo pagato il mio trasporto.

Per il resto del tragitto parlava della sua famiglia e del fatto che se volevo prendere una delle navi che arrivavano in Italia avrei dovuto pagare molto. Se non avevo soldi potevo pagare come avevo fatto con lui. Non si era reso conto che non avevo mai fatto niente del genere. Non avendo uno sposo ero stata condannata a stare sempre da sola. Quella era stata la mia prima esperienza sessuale; mentre il viaggio continuava capivo molte delle lamentele delle mie sorelle. Era stata la cosa più orribile che mi fosse capitata. Il dolore che sentivo sembrava avvolgermi la pancia, le gambe e tutte le ossa mi facevano male. Avrei dovuto subire questo da un marito? Allora Dio mi aveva fatto un favore rendendomi brutta e indesiderabile. Arrivammo verso sera. Mi lasciò su una piazza. Corsi verso delle donne che erano sedute per terra a lavorare. Grazie alle loro indicazioni arrivai in prossimità del porto. Non avevo mai visto niente di simile. Ho vissuto lo stesso tipo di stupore la prima volta che in Francia sono entrata in un supermercato: ho pianto per un’ora.

Il porto era magnifico. Sporco, disordinato ma pieno di colori. In una parola: vivo. Non elencherò quello che ho dovuto fare per mettere via i soldi necessari a pagare il mio passaggio. Dirò soltanto che in un porto la maggior parte degli uomini è disposta a pagare per avere una donna. Non avevo altro: ho usato il mio corpo per comprarmi una nuova esistenza. Nessuna giustificazione che mi sono data dopo toglie l’odore di quegli uomini da me. Ma ormai sono un’altra persona. La vera Amina è questa qui, che vive e lavora. Che respira e può leggere. Ho dovuto aspettare un altro anno per ottenere un passaggio. Gli scafisti hanno precise disposizioni: un certo numero di persone, una certa cifra per persona, una data precisa per partire.

Io sono salita su una barca insieme a cinquanta altri disperati. Il prezzo era fissato in dollari. Alle cinque del pomeriggio del giorno stabilito ero ferma ad aspettare. Poi tutto è stato improvviso e veloce. Salire sulla barca, sistemarsi e l’inizio del viaggio. Per i primi due giorni il viaggio era quasi piacevole, si riusciva a parlare. Il terzo giorno nessuno aveva più acqua da bere, tranne gli scafisti che però non la dividevano con noi. Il quarto giorno svegliandomi ho visto che un ragazzo giovane era immobile. Uno degli scafisti lo ha preso e gettato nell’acqua senza una parola, senza che nessuno avesse il coraggio di dire niente. Altre due volte è successa la stessa cosa. Una ragazza molto molto giovane e un altro ragazzo che fino all’ultimo minuto rantolava cercando la madre. Il quinto giorno ero ormai convinta che saremmo morti tutti. Gli scafisti urlavano di stare tranquilli che saremmo arrivati presto. Era solo per farci stare zitti.

La pelle mi era diventata più secca della carta, sentivo gli occhi che cercavano di uscire dalla testa e il caldo, il sole mi avevano reso quasi cieca. Mi coprivo ma sapevo che stavo per andarmene. Ero quasi contenta. All’improvviso c’era agitazione. Gli scafisti urlavano, le persone che erano con me pure. Si stava avvicinando una nave piuttosto grossa. Gli scafisti ci facevano cenno di scendere, ma non dicevano dove. Attorno a noi solo mare. Pensai di essere impazzita. Non vedevo terra, dove dovevamo scendere? La nave che stava arrivando era della Marina Italiana. A quel punto gli scafisti gettavano letteralmente le persone fuori dalla barca. La stanchezza, la sete e la fame ci impedivano di proteggerci. Ci ritrovammo in mare a bere acqua salata e a tentare di non affogare. La nave italiana ci venne subito in soccorso. Ci tirarono su con corde e funi. Ero scampata alla mia morte. Altri non sono stati così fortunati.

Appena arrivata al centro di accoglienza ripetevo “Gracie Magnit” come se fosse una formula magica. Lo dicevo a tutti finché un operatore mi fece cenno di seguirlo. Su una bacheca c’era la foto della “mia” Gracie insieme a altre persone. Ripetevo “oui” in continuazione. Per due giorni sono stata accudita da persone magnifiche. Si prendevano cura di me, mi davano da mangiare e da bere, mi lavavano.

Passati altri due giorni è arrivata Gracie. L’avevano chiamata a Parigi dove era tornata a lavorare. Ci siamo abbracciate come sorelle. Piangevo e ridevo. Gracie mi ha fatto ottenere i documenti, ho dovuto aspettare mesi. Ha firmato lei accollandosi tutte le responsabilità; man mano che le parlavo di quello che avevo fatto si disperava o si rallegrava per me. Sono andata a vivere con lei per un certo periodo. Ho imparato a prendere il treno, a fare la spesa. Ho iniziato ad essere una persona. A leggere, a scrivere. Sono passati dieci anni. Quello che ho vissuto lo scrivo come se fosse successo ad un’altra persona. Ho ottenuto lavori come cameriera, ho fatto pulizie, ho badato a parecchi anziani.

Ho una storia d’amore vera. Uno dei camerieri del bar dove io e Gracie andavano tutte le mattine ha iniziato a corteggiarmi. I primi tempi ho sempre rifiutato ogni invito, mi sentivo sporca per quello che avevo dovuto fare per poter lasciare la mia terra. Poi ho accettato di uscire. E ho scoperto cosa vuol dire essere amati. Sono riuscita a dirgli la verità dopo qualche mese, ma Giovanni ha detto che il passato non doveva condizionare il nostro futuro. Anche lui aveva avuto piccoli precedenti con la Legge quando era giovane ma da quando era arrivato in Francia la sua vita aveva preso un’altra direzione.

Una mattina di novembre mi ha detto che dei suoi parenti volevano aprire un bar vicino a Milano nell’anno successivo e mi ha chiesto di seguirlo. Ho riflettuto tanto e alla fine ho accettato. Gracie mi ha insegnato l’italiano che parla bene perché sua nonna è di Vicenza. Ho lasciato la Francia con un misto di gioia e di dolore. Siamo arrivati in Italia a metà dicembre. I parenti di Giovanni hanno fatto l’inaugurazione del locale il giorno ventiquattro. Lui ha dovuto lavorare tantissimo. Io sono stata ospitata da una sua cugina che mi ha trattata da subito come una di famiglia.

Ci abbiamo messo tre mesi ma alla fine abbiamo trovato casa. È un appartamento che dista poco dal suo lavoro. Io ho iniziato a lavorare per il Comune, come traduttrice e addetta alla ricezione degli extracomunitari. Quando ho ricevuto la prima busta paga con il mio nome sopra sono corsa a fare una fotocopia. Ho spedito una parte dei soldi alla mia famiglia. Non provo nessun sentimento di odio o di rancore verso di loro.

Vedere una realtà diversa mi ha resa forte. Noi non siamo quelli che nasciamo. Ognuno di noi può avere una sua evoluzione, nel bene o nel male. Da poco ho scoperto che non potrò mai avere bambini. Ho una malformazione all’utero. Che è quella che mi ha salvata dal rimanere incinta quando facevo la prostituta. Perché è quello che ero e non sono più. Io sono la nuova Amina che ha un lavoro onesto, che ama Giovanni e che è disposta a lasciarsi il passato alle spalle, accettandolo.

Ho conservato solo una cosa: il pettine di mia madre. È nel mio bagno, lo uso tutte le sere e, pettinandomi, penso a lei. Ora so che è morta per emorragia dopo dodici figli avuti uno dietro l’altro. Le mie sorelle e i miei fratelli hanno tutti un gran numero di bambini; prego per loro perché trovino una strada nella vita che li renda felici come è successo a me. Non importa quanto dolore ho dovuto sopportare per raggiungere il mio destino. La luce è dentro di noi, la speranza nasce con le persone.

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