Amarcord. Lavoro di ieri e di oggi

Articolo di Gattonero

“Mi ricordo”, poi assemblato da Fellini in Amarcord nell’omonimo film, divenuto sinonimo dei ricordi personali, il più delle volte nostalgici e amaricanti.

Già all’uscita di quella pellicola, nel ’73, lo avevo tradotto, a mio uso e consumo, in Amari ricordi, con un romagnolo maccheronico, visto che all’epoca ricordi dolci del mio passato non è che ne avessi molti.

Col passare degli anni il conto di questi ricordi è poi andato quasi in pareggio, tanto da consentirmi di pescare alla cieca, trovandone di dolci anche in situazioni di convivenza lavorativa.

Da tempo cercavo la lettera che segue questa presentazione, mi ero quasi convinto di averla buttata, pur essendo questa operazione lontanissima dal mio modo di conservare le cose, soprattutto se simpaticamente piacevoli. L’ho ritrovata quasi casualmente, dentro una scatola da scarpe, tra l’altro bene in vista, con altri biglietti di auguri vari, cartoline di saluti (che allora ancora si usavano), qualche “santino” listato a lutto di persone care che mi hanno preceduto, e il cui ricordo non ha bisogno di essere supportato da immaginette, tanto è impresso a fuoco nel mio cuore.

Racconto sommariamente (chi ci crede, non mi conosce…) da cosa è nata questa missiva, che risale alle feste natalizie del 1989.

Nella primavera di quell’anno, dopo oltre 24 anni di fedele servizio presso una società, avevo ricevuto il lampo, assolutamente inatteso, una “vocazione”, una chiamata impossibile da rifiutare.

Oltre al fedele servizio suo diretto, la mia casa madre mi aveva appioppato, su esplicita richiesta delle interessate, una specie di collaborazione extra moenia, con altre due sue consorelle, non concorrenti dirette pur operando nello stesso ramo, che mi avevano cooptato non tanto per meriti miei particolari quanto per motivi logistici ed economici.

I rapporti con queste erano gli stessi che con la società che mi aveva in libro paga, soprattutto quelli con i dipendenti fissi di questi due gruppi; che, con la frequentazione telefonica quotidiana e quella fisica un po’ di volte nel corso dell’anno e degli anni, erano divenuti rapporti di cordiale amicizia.

Dopo quegli anni di onorato, rispettato, leale e, per certi versi, divertente servizio, una sera a casa mi era arrivata una telefonata, sintetica ma precisa: “Ci interessi, a te interessa?”, così, tronca, senza tanti fronzoli.

(Ho un amico ferrarese, che a ogni domanda precisa riguardante, che so, un piatto, un film, una canzone, una città, una ragazza… proposta con un “Ti piace?”, risponde invariabilmente con un “Veh!” che lascia il tempo che trova; io ci casco sempre con “Ma veh! sì o veh! no?”; bisognerebbe distinguere l’intonazione di quel veh! per avere la risposta immediata all’una o all’altra versione, e io questa sottigliezza vocale non l’ho ancora individuata).

Di sicuro, alla domanda telefonica avrò risposto affidandomi a un termine straniero, di quelli che ci consentono di non passare per parolacciai scostumati, altrettanto tronca: “Cazzo!”.
Dall’altra parte: “Ma cazzo sì, o cazzo no?”.
“Cazzo e stracazzo, sì!”.

Come non ho detto, era una di quelle proposte che non si possono rifiutare, senza bisogno di teste di cavallo fatte trovare nel letto, a sollecitare una risposta positiva.

Detto fatto, avevo cambiato casacca. Senza concorsi o test di ammissione che, se richiesti, mi avrebbero tagliato da subito le gambe e rispedito alle origini. Solo successivamente, alla firma su un contratto, avevo appreso che avevano accumulato su di me tutte le informazioni utili; vita e miracoli, risultava che di me sapevano già tutto..

Vita e miracoli… morte, toccando tutt’ora ferro, no.

All’indomani avevo comunicato al mio capo galattico l’offerta ricevuta.

Telefonicamente dispiaciuto, mi aveva chiesto se avevo già deciso in merito. Nel rispondere era emerso il mio lato femminile, mentendo come solo le donne sanno fare (superate, peraltro, in questo dai politici e dai parcheggiatori abusivi), avevo dato per “ci sto pensando” una decisione già presa d’emblée.

Gli avevo poi mandato due righe, quasi a giustificare il mio “tradimento”, in cui attribuivo al desiderio pre-senile di verificare se davvero l’erba del vicino era più verde, il taglio a un passato collaborativo durato cinque lustri, incredibilmente senza screzi importanti, visti i nostri caratteri occasionalmente spigolosi, con sporadici umani periodi di tensione.

Un paio di mesi dopo ero pienamente operativo, nel percorso che mi era stato assegnato, con le stesse modalità di quello precedente, solo con altra maglietta e altro numero di matricola.

E, nota secondaria assolutamente insignificante, altre condizioni economiche, che peraltro non avevano avuto alcun peso importante nella decisione (qui è ancora il mio lato femminile che prevale; però mascolinamente qui arrossisco leggermente…). Ma la nuova matrigna (detto in modo affettuoso), aveva voluto l’esclusiva assoluta del mio tempo e della mia, modesta, opera. Per cui avevo salutato i precedenti amici per andarne a conoscere di nuovi.

Tra quelli lasciati ci sono i due “delinquenti” che mi hanno mandato questa lettera, rimasta nel cuore e nella mente, nonostante siano passati trentaquattr’anni. La frase della lettera che mi fa ancora sorridere da un lobo all’altro è quella riferita al fatto che “… se ce l’hai fatta tu, perché non possiamo farcela anche noi?”.

Mi piacerebbe dire ai giovani d’oggi: “Se ce l’ho fatta io, potete farcela anche voi!”, senza falsa modestia, ma i tempi sono cambiati, troppo diversi dai miei, e oggi questa frase, a fronte della disoccupazione che maciulla tutte le capacità e tutte le intelligenze, di giovani e meno giovani, suonerebbe veramente come un ignobile, assurdo sfottò.

La posso solo offrire come un invito alla speranza, che qualcosa cambi e che le persone che meritano riescano a imbroccare la strada giusta, quella strada che consenta di vedere e vivere un futuro dignitoso.

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