L’ago della bilancia
Racconto e foto di Daniela Grandinetti
Mia madre era obesa, provate a pronunciarlo: o-b-e-s-a: non è un suono gentile? La verità è che era grassa. Grassa invece è una parola violenta, provoca stizza, e io la conosco bene. La stizza, intendo. Non avrei voluto essere grassa come lei, ma ha cominciato a ingozzarmi che ero in fasce. Quando cresci in mezzo al cibo e tua madre ti riempie il piatto facendoti ingurgitare succo d’uva alla fine dei pasti “per prendere le vitamine” – come amava dire – finisci per pensare che quella sia la normalità. Non frequentavo altri bambini, a parte delle cugine con le quali giocavo ogni tanto. Sarà stata la parentela, ma non è che mi sentissi diversa da loro.
Mi piaceva infilarmi tra le cosce di mia madre quando sedeva sulla vecchia sedia di paglia in cucina, Dio solo sa come la reggesse. Poggiavo la testa sulla sua pancia molle e mi lasciavo cullare. Tra le pieghe del grasso chiudevo gli occhi e mia madre diventava una grande mongolfiera: vedevo prati, mare, case, comignoli con sbuffi di fumo e persone piccole piccole. Potevo volare. Leggera.
L’ago della bilancia non lo conoscevo, ero una bambina felice. Vivevo in un mondo fatto di casa, radio accesa, rumore di pentole, bambole di pezza e la pancia di mia madre. I vestiti che indossavo li cuciva lei, ogni anno non c’era niente che mi stesse dalla stagione precedente.
“Cresci”. Mi diceva con il metro sulle spalle e gli spilli infilati sul petto, sempre a prendermi le misure. Non era vero: ingrassavo. Una volta per carnevale mi confezionò un vestito, non ho mai capito che maschera fosse: era un bustino con gonnellina a corolla verde smeraldo, calzamaglie bianche di lana e delle vecchie scarpe nere con i lacci.
La domenica mattina mi svegliò e mi disse: “Oggi andiamo a passeggio che ti vesti per carnevale”. Ero obbediente, così mi alzai assonnata e andai in cucina, dove mi aspettava il solito vagone di latte addolcito da tre cucchiai colmi di zucchero con i biscotti fatti in casa. Quando li cuoceva la fragranza si diffondeva per le stanze, era un aroma caldo che proteggeva da qualsiasi male.
Quella mattina dopo colazione mia madre mi trascinò in bagno e mi strofinò energicamente il muso e le orecchie con la sua manona bagnata. Mi portò in camera da letto e mi depositò davanti allo specchio. Com’ero in quello specchio? E che ne so? Ero una bambina, ero io. Che ne sapevo di com’erano gli altri? Mi svestì e mi infilò una maglia di lana grossa. Cominciai a sudare, ma non dissi niente.
“Così stai bella calda”. Mi disse.
Poi mi mise a sedere sul comò e mi infilò le calze e il gonnellino, sul quale applicò un gran fiocco dietro, ben in vista, proprio sul sedere. Infine il bustino, e giù altri due fiocchi sulle spalle. E qui avvenne la tragedia: nonostante i tentativi di stringere quel maledetto bustino (il mezzo litro di latte appena bevuto diventò ricotta nello stomaco), non c’era verso che si chiudesse. La pancia rimaneva orribilmente scoperta, con la spessa striscia di lana della maglia che spumeggiava dai bordi. Prima che finissi per vomitare, mia madre rinunciò a stringere.
Mi pettinò la modesta quantità di capelli muovendo la spazzola con la grazia con cui si muove un piccone, e li strinse in un nastro giallo canarino, mentre io sentivo gli zigomi allungarsi fino a far male. A completare l’opera, un altro bel fiocco sulla testa. Ricordo pensai che con quel fiocco non mi sarei mai persa nella confusione delle strade di carnevale, e questo fu un pensiero rassicurante, tanto che il sollievo sbloccò un rutto degno di un marinaio al decimo rum dopo la traversata dell’oceano.
“Adesso la parte più importante”.
Si riferiva al trucco: cominciò dagli occhi, disegnando una linea nera sulle palpebre sfumata verso l’esterno con il dito imbevuto di saliva. Inutile dire che la superficie del dito di mia madre era tale che la linea si trasformava in patacca all’angolo degli occhi. Dopo qualche inutile tentativo di correzione, decise che la patacca poteva comunque andare. Fu poi la volta delle labbra: un rossetto rosso fuoco che ebbe cura di ripassare non so quante volte mentre mi stringeva delicatamente la mascella (non saprei dire se fu pura coincidenza la perdita dei denti da lì a poco).
Io, immobile come una mummia che teme di disfarsi le bende, non vedevo l’ora di ritornare davanti allo specchio per vedere il risultato. E finalmente, quando mi vidi, un sorriso allargò i dieci strati di rossetto. Ero su un altro pianeta, o meglio, ero un’astronave venuta da un altro pianeta. Anzi, ora che ci penso: che fossi vestita da astronave? Ad ogni modo voi terrestri normali non potrete mai capire: quella non ero più io. L’ago della bilancia era alle stelle e mi brillavano gli occhi. Ero raggiante. E assolutamente incosciente d’essere ridicola.
“Andiamo a passeggio sul corso. Poi dal fotografo a fare le foto – disse osservandomi nello specchio – come sei bella Angiolina! Sei un fiore!”.
Anche questo non era vero. Ero la caricatura di un carciofo geneticamente modificato. Dieci anni dopo, quando l’incoscienza si era ormai dissolta da un pezzo, sono andata a caccia di quelle foto e le ho distrutte facendole a pezzettini. Meno male avevo mangiato, altrimenti le avrei ingoiate volentieri! Comunque, a spezzare l’incanto della mia infanzia è stato il trauma del primo giorno di scuola: nel mio candido grembiulino (si fa per dire), con il nastro rosa al collo, al mio ingresso in una classe di bambine spaurite come me, sentii sguardi addosso – in totale una cinquantina di occhi – provenire da tutte le direzioni: che avevo di così strano? Fu così che guardandomi intorno mi resi conto della realtà, ovvero ero una nave merci tra piccole e leggiadre barchette.
Mi fu assegnato il posto accanto a una gracile bambina dagli occhi da aguzzina (mai presagio fu più azzeccato) e mi accoccolai nel banco con la stessa grazia di un ippopotamo su uno sgabello. Da quel momento l’ago della bilancia cominciò a dire la verità: ero una bambina grassa destinata ad avere un’esistenza diversa. Solo i biscotti profumati di mia madre e i suoi succhi d’uva riuscivano a consolarmi dai mille quotidiani dolori di una bambina che guarda gli altri bambini saltare, giocare, correre e si sente ridicola, incapace, vittima di scherzi cattivi e battute feroci.
Alla fine sono cresciuta anch’io, ma con la determinata convinzione che i grassi dovrebbero rimanere sempre bambini tra le cosce delle proprie madri, l’unico posto dove ho voluto bene alla mia, di madre, senza mai conoscere l’ago di una bilancia. Che poi, crescendo, quest’ago non so quante volte avrei voluto infilarlo in quel posto ai tanti che volutamente o ingenuamente mi hanno sempre fatto sentire una zavorra. Infatti non ho più volato.
Con buona pace di mia madre che anche in paradiso starà ingozzando Dio e tutti i santi. Non credo sia finita all’inferno, magari è lì che l’hanno mandata, ma il diavolo, furbo com’è, sono sicura l’ha rispedita all’altro cancello con tanto di timbro di errore di destinazione: una santa madre del suo fiorellino adorato non va all’inferno!
La vedo con un vassoio, a convincere perfino San Pietro a ingurgitare arancini, biscotti e succo d’uva, con la ferma sicurezza che non si può stare in piedi tutto il giorno davanti a un cancello senza mangiare. No, non si può, c’è bisogno di vitamine. Spero solo che lassù siano a dieta eterna, visto che lo spirito deve essere leggero.