Palecastro di Tortora. Si dice che…
Articolo di Martino Ciano
Ci hanno detto che l’uomo non vive di solo pane. Nonostante la crisi economica, morale e politica di questi tempi ci faccia allontanare dalla bellezza, ogni tanto un sentimento di spaesamento ci porta in dono delle domande strambe: da dove proveniamo e che senso abbiamo, quale strada percorriamo? Riconosciamo allora che a qualcosa di lontano apparteniamo, anche se non sappiamo cosa sia. Qualche risposta ce la danno il passato, la storia e quel deposito di ricordi nel quale abbiamo riposto le cose più intime.
Il sentimento del tempo perduto
Si dice che il Palecastro di Tortora sia stato abitato da popoli dai nomi per noi astrusi, ché ormai la globalizzazione ci ha resi una sola stirpe, una sola mente e un solo corpo. Enotri, Lucani, Romani e poi chissà quanti altri si stabilizzarono su questa collina. Ognuno aveva un motivo per fermarsi, ma nessuno se ne andò senza lasciare traccia del proprio passaggio. Per esempio, ai Romani piacque questo monticello che si ergeva di fronte al mare calabrese, perché da qui potevano scrutare con facilità il Golfo di Policastro. Per loro era un ottimo avamposto militare, ché erano imperialisti i Romani e punirono quelli che già vi abitavano e che vollero allearsi con i Cartaginesi. Ma nonostante i tumulti della storia, su questa collina la vita scorreva lenta e inesorabile, come per gli uomini di tutte le epoche. Vasi, piatti e altri oggetti produssero queste genti; con colori particolari li dipinsero, tant’è che non si trovavano ceramiche così belle in tutta l’area. Era una terra d’artisti questa, non di profeti odiati in patria, né di soli uomini sfruttati.
Polvere del tempo
Si dice che nel nono secolo dopo Cristo arrivarono i Saraceni e le genti di Blanda fuggirono a gambe levate portando via ogni cosa. Trovarono riparo tra monti ancora più alti e tra terre difficili da raggiungere. Facevano paura i Saraceni, imperialisti come i Romani, distruttori anche loro dell’ordine costituito; così cominciò a posarsi la terra sulla città del Palecastro e la storia iniziò. La mano del tempo sfasciò le mura, fece crescere gli arbusti, seppellì ogni cosa. Addio Blanda, una generazione va e un’altra viene. Un giorno qualcuno verrà a cercarti, magari ti troverà per puro caso e piangerà sulle rovine. Si dice che l’uomo fa e disfa, ma chi fa e disfa non perde mai tempo; avvenne quindi che, in tempi recenti, nel 1970, scrive lo storico tortorese Michelangelo Pucci, una pala meccanica, intenta a scavare una fossa per l’acquedotto, inciampò in una pietra che poi si scoprì essere un cippo. Eppure per tanti era solo ‘na petra, ma era ‘na petra che parlava, anzi su cui c’era scritto un messaggio. Era un ringraziamento al duumviro Marco Arrio Clymeno, che nel primo secolo dopo Cristo aveva sfamato la popolazione che stava facendo i conti con la carestia. E da quella pietra in poi, tante parole sono state scritte, e tante fosse sono state scavate, e quante ancora sono rimaste inesplorate; eppure si dice che qui non ci sia niente per cui valga la pena lottare.
Le vie dello spirito
Si dice che tra necropoli, chiese paleocristiane, monaci in cerca di eremi e strade impervie che viandanti e pellegrini attraversavano con bisacce cariche di fede e speranza, in cima, ai piedi, oltre il Palescastro la vita pulsasse e nessuno conobbe l’apatia, ché i tempi erano duri, come noi neanche possiamo immaginare, ma la giornata si affrontava, la fede la guidava e ogni impresa, anche arrivare in salute al mattino dopo, richiedeva coraggio. Si dice che non di solo pane vive l’uomo, ma qui il pane per sfamarsi sapevano produrlo e le testimonianze di quegli spiriti e di quei corpi sono giunte fino a noi. A quante cose apparteniamo ancora non lo sappiamo, ché scavar si deve e scavando si capirà. Però, nessuno crede davvero che da qui nasca qualcosa di duraturo, ché è convinzione di molti che di fame muoia chi si affida alla bellezza e alla cultura; ma di questa bellezza siamo fatti e ogni giorno un po’ ci spegniamo in questo romantico profumo di dissoluzione. Eppure, basterebbe guardare a quella collina, prendersi cura del sentimento del tempo che ancora sopravvive alle intemperie dei secoli, ascoltare le pietre, le anime degli avi, il passato che ci ha fatto cristiani.